Tre eventi ravvicinati condannano quel giorno fatidico in cui la Rai fu chiamata a rispondere alla nascita del duopolio con Mediaset. Viale Mazzini si svegliò di soprassalto da un sonno beato, forte di trent’anni trascorsi in solitudine nello spazio dell’etere televisivo. Con crescente preoccupazione lo staff alla guida dell’azienda pubblica si vide costretta a reinventarsi per fronteggiare l’attrattiva delle reti commerciali e l’incubo partorì la perversa decisione di inseguire l’agguerrita concorrenza su piani paralleli. Ne derivarono i prodromi di un lento suicidio. Nessuno prese coscienza del gigantesco errore commesso per decenni, quando in regime di monopolio, la Rai avrebbe potuto costruire mattone su mattone un edificio inattaccabile, con solidi materiali, avvantaggiata da straordinarie professionalità e dalla libertà di infischiarsene della tetra legge di mercato “prodotto televisivo-ritorno pubblicitario”. L’azienda poteva avrebbe potuto puntare sulla progressiva conquista di fasce d’ascolto medio-alte, con programmi di buona qualità culturale, invise alla concorrenza perché pubblicitariamente improduttive e al tempo stesso e competere al meglio sul piano della spettacolarità, come hanno dimostrato in questi giorni i consensi degli utenti Rai al suggestivo show di Mika, al concerto di Natale diretto da Muti e al capolavoro televisivo di Bolle, premiato con la vetta di ascolti di cinque milioni che ha smentito il basso profilo dello spettatore italiano, attratto solo dal gossip dei beceri pomeriggi di Rai uno e Rai due, da serie rabberciate di telefilm pseudo gialli e prime serate di mediocre avanspettacolo. Purtroppo sono questi ultimi i generi che continueranno a obnubilare le menti della maggioranza silenziosa dei teleutenti, fino al regalo sporadico, chissà fino a che punto previsto da viale Mazzini, di un bis del bis di Muti, Bolle, del libano-britannico Mika.
Chissà, l’incubo della splendida Galleria Umberto I, che fronteggia il San Carlo e guarda di sbieco la magnifica, desolata piazza del Plebiscito, potrebbe diventare uno dei sogni possibili, ma irrealizzati di Napoli. L’idea ha origine dalla contrapposizione giornalistica che disegna gli ampi confini della diversità Nord-Sud, (ahinoi!), amplificata dal confronto Milano-Roma in tema di ricavo dalle rispettive proprietà immobiliari. Impressiona e fa riflettere l’abisso che divide la saggezza amministrativa della capitale economica del Paese e la “sciatteria” (ma la parola non rende a pieno) della capitale politica. Prendete nota: solo i circa duecento metri per 100 della Galleria milanese Vittorio Emanuele e gli immobili compresi tra il Duomo e la Scala rendono al Comune di Milano quasi ventisei milioni di euro. Roma? Le sue proprietà immobiliari, oltre quarantamilaappartamenti, tra case popolari e palazzi di lusso, fruttano meno alla sindaca Raggi: scarsi 25 milioni. La capitale d’Italia è davvero sorprendente. Indagini accurate dicono che solo il 18 percento delle case di proprietà comunale sono in fitto a prezzi di mercato, il 16 percento è occupato abusivamente e case con vista sul Colosseo, monumento più visitato la mondo, sono fittate a 30 euro al mese. A un inquilino sono intestate diciotto case popolari.
L’idea conseguente raccomanda a Napoli di emulare Milano, perché anche la sua Galleria diventi luogo di eccellenza della città ambito dalle big del mondo che richiedono sedi prestigiose.
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