E’ ormai appesa a un filo la sorte del ddl sulla diffamazione a mezzo stampa presentato quattro anni fa con il nobile intento di cancellare subito le norme che permettono di infliggere ai colpevoli una pena detentiva fino a sei anni (un record europeo che vede l’Italia seconda solo alla Slovacchia) e perciò hanno un effetto raggelante (chilling effect) sulla libertà di informazione. Purtroppo le soluzioni proposte dal testo non realizzano questo nobile intento sollecitato dalle istituzioni internazionali e addirittura introducono misure peggiorative che ridurrebbero ancor di più la libertà di espressione. Fra esse, la misura più rilevante è l’aumento di dieci-venti volte dell’importo minimo delle multe.
Negli ultimi 18 mesi i giudici hanno condannato altri 220 giornalisti italiani a un secolo e mezzo di carcere (Dato del Ministero della Giustizia elaborato da Ossigeno). Nello stesso periodo il legislatore ha tentato di approvare leggi che portavano in direzione opposta a quella indicata dal disegno di legge sulla diffamazione. Nello stesso periodo hanno lasciato dormire al ddl no-carcere un sonno profondo nei cassetti della Commissione Giustizia del Senato, un sonno inspiegabile che ha agevolato questi tentativi.
Finalmente qualche settimana fa il ddl è stato scongelato ed è ripreso il suo esame. Ma non è detto che si riuscirà ad approvarlo. Attualmente è in atto un duro confronto fra chi vorrebbe mantenere le promesse e chi invece vorrebbe cogliere l’occasione per stringere ancora di più quella morsa fatta di norme punitive in materia di diffamazione a mezzo stampa, per le quali l’Italia è tristemente famosa nel mondo.
Il testo ora in discussione fu approvato nel 2015 dalla Camera dei Deputati in seconda lettura. Per modificarlo sono appena stati presentati 25 emendamenti. Cinque propongono di reintrodurre le norme sul diritto all’oblio che i deputati hanno cancellato a furor di popolo ritenendole poco rispettose della memoria storica. Anche gli altri venti emendamenti propongono di reintrodurre norme cancellate dalla Camera. Alcuni senatori, come Ricchiuti e Felice Casson, hanno proposto di sanzionare più severamente di quanto sia previsto chi presenta querele pretestuose o intenta liti temerarie. Propongono di fare un timido passo avanti, ma un passo nella direzione giusta.
Come finirà questo tiro alla fune? Probabilmente con un istradamento sul binario morto. Secondo indiscrezioni, la commissione sta cercando una via d’uscita, snellendo il provvedimento, lasciando in piedi soltanto l’abolizione del carcere e gli articoli che propongono misure utili a frenare il frequentissimo uso intimidatorio della querela e della causa per danni. Anche questo sentiero è impervio, come ammette la relatrice, la senatrice Rosanna Filippin (Pd).
“Stiamo cercando di capire – ha spiegato Filippin a Ossigeno per l’Informazione – se possiamo fare ancora qualcosa per evitare che, dopo quattro anni e tante votazioni, questo testo finisca sul binario morto”.
Il tentativo di salvare la legge, rendendola coerente con i propositi originari e riuscendo ad approvarla in questo ultimo scorcio di legislatura, incontra forti resistenze. Al primo esame della Commissione Giustizia è già fallito. Difetta la volontà politica, prevale una volontà di rivalsa, manca una visione unitaria anche all’interno della maggioranza.
Nel frattempo i tribunali continuano ad applicare ai giornalisti che sbagliano le condanne a pene carcerarie, condanne che ogni mese ammontano fanno cumulare otto-nove anni di detenzione e riproducono quel chilling effect che il Governo e il Parlamento si sono impegnati a eliminare.
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