Il battesimo della WAC si è celebrato il 2 marzo in una delle aule del Senato italiano, con il patrocinio di un gruppo di senatori indipendenti. Cos’è la WAC? L’acronimo significa Web Activists Community, cioè “Comunità degli attivisti della Rete”. L’occasione è stata creata, si può dire, dall’apparizione di un disegno di legge, a firma Adele Gambaro che si propone, in sintesi, di colpire la libera espressione delle opinioni sul web.
Una legge che, come ha illustrato autorevolmente, durante l’incontro, il vice-presidente emerito della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, è prima di tutto palesemente anti-costituzionale. In più sensi e in violazione di diversi articoli, a cominciare dall’articolo 21 della Costituzione, che suona inequivocabilmente in questi termini: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Ma la senatrice Gambaro (seguita da uno stuolo di senatori della Repubblica che hanno il suo stesso, sovrano disprezzo per la Costituzione cui hanno giurato fedeltà) ritiene che sul Web questa libertà di manifestazione non ha ragione di essere. E, stabilendo una serie di eccezioni cervellotiche, inventa e propone sanzioni gravi, anzi gravissime – fino alla reclusione -contro i cittadini che intendono esercitarla in Rete.
Si noti: le norme previste sono esplicitamente indirizzate contro i singoli cittadini, non contro i giornalisti professionisti, che scrivono e si esibiscono nei giornali e nelle televisioni, ma nei confronti di coloro che, attraverso la Rete, scrivono e dicono quello che pensano.
La senatrice Gambaro (eletta nelle liste del Movimento 5 Stelle, ma poi emigrata in altri gruppi parlamentari) ha preso l’iniziativa dopo essere stata recentemente relatrice sul tema al Consiglio d’Europa. Non è dato sapere chi e perché ha dato alla signora in questione un tale augusto incarico. Certo è che è in corso, in Europa, una tentativo di mettere la museruola al Web, specie tenendo conto che in Francia e Germania le elezioni incombono. Le recenti esperienze di consultazioni, elettorali e referendarie, in diversi paesi occidentali, hanno infatti dimostrato che il controllo sociale – esercitato dal mainstream media nel suo complesso – sta mostrando clamorose falle. Lo si è visto con il Brexit britannico, dove tutti i media ufficiali tifarono perché fallisse e la Gran Bretagna rimanesse in Europa, con il risultato che la maggioranza degl’inglesi votò in senso contrario. Esperienza che si è ripetuta in autunno negli Stati Uniti d’America, dove Hillary Clinton – stando ai media ufficiali vincitrice a man bassa – è stata sconfitta da Trump, osteggiato dai grandi canali tv e dai maggiori e paludati giornali. Il terzo tonfo si è registrato a dicembre in Italia. Per il “sì” alla cosiddetta riforma costituzionale erano schierati tutti i giornali principali e tutte le tv. Invece il risultato fu una clamorosa vittoria del “no”. Così l’inquietudine dei poteri si è trasformata in angoscia. E dall’angoscia si è passati all’organizzazione di una risposta. Ma invece di chiedersi come mai giornali e tv hanno perduto una parte del loro “potere di convinzione”; invece di iniziare un’autocritica seria del loro appiattimento pressoché totale alla propaganda del pensiero unico, i gestori del potere informativo – anzi i loro maggiordomi – sembrano proporsi una linea repressiva su larga scala.
Mettere dunque la museruola al pubblico sembra essere la linea in corso di esecuzione. Il disegno di legge della Gambaro, in Italia, dopo la sua relazione al Consiglio d’Europa, sono due chiare indicazioni preliminari. Ma ci sono altri sintomi. La presidente del parlamento italiano, signora Boldrini, si è fatta promotrice della costituzione di un gruppo di “esperti” il cui compito sarebbe quello di scovare le fake news che appaiono in Rete. Esperti le cui qualità professionali sono in dubbio, e l’arbitrio della loro scelta è tanto palese da squalificare anticipatamente un tale tentativo. Ma si capisce bene che i loro verdetti saranno utilizzabili per scatenare una vera e propria caccia alle streghe.
Naturalmente lo scopo di queste mosse è quello di nascondere l’immensa massa di fake news quotidiane che gronda da ogni pagina dei giornali e delle tv “ufficiali” (li chiamano – e tra loro di chiamano ancora -“indipendenti”, ma è chiaro ormai a moltissimi che essi sono molto dipendenti dal potere politico e dagli inserzionisti pubblicitari). La stessa cosa sta avvenendo in Francia, dove il governo ha affidato ai giornalisti di un gruppo di testate giornalistiche di fama (tra cui Le Monde e Liberation) compiti analoghi di sorveglianza e di controllo delle fake news del Web. Addirittura, con l’aiuto di Google, della definizione di chissà quale algoritmo che dovrebbe esprimere automaticamente la condanna alla liquidazione di una news (e alla chiusura dei siti che la ospitano). Orwell alle porte a Parigi, e a Roma.
È in base a questi allarmi – come si vede pienamente giustificati – che nell’ottobre scorso un gruppo di bloggers italiani ha avviato la creazione della WAC. Come strumento di difesa contro il sopruso della politica e del mercato, ma anche come struttura che permetta ai creatori indipendenti di notizie di negoziare con i grandi motori di ricerca e con i social networks le condizioni (anche quelle economiche) nelle quali il loro lavoro sociale è attualmente costretto. Cioè per mettere in discussione lo strapotere delle grandi multinazionali della comunicazione. WAC nasce in Italia, ma l’idea è di trasformarlo al più presto in una iniziativa internazionale. In primo luogo europea. È l’inizio di una grande e inedita battaglia per la democrazia.
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