VANNINI – IMPUNITA’ E FAVORI PER ASSASSINI E MINISTERO DELLA DIFESA

Esiste una ennesima, illuminante “stranezza” nelle inchieste giudiziarie sull’omicidio di Marco Vannini, il ventenne ucciso da un colpo di pistola esattamente quattro anni fa a Ladispoli, in casa della fidanzata Martina Ciontoli, e lasciato agonizzare senza richiedere tempestivi soccorsi.

Antonio Ciontoli. Sopra, Marco Vannini

Le recenti, rigorose indagini giornalistiche, in particolare quelle di Giulio Golia per le Iene, hanno portato alla luce nelle ultime settimane rilevanti elementi. Ma proprio queste nuove prove vanno ad incrociarsi con i motivi per i quali in questo processo c’è un grande assente: il Ministero della Difesa, ovvero quell’Arma dei Carabinieri di cui fa parte Antonio Ciontoli, casertano, l’uomo dei Servizi Segreti condannato in appello alla pena risibile di cinque anni per aver causato la morte di Marco.

Un verdetto ampiamente atteso, assolutamente “previsto”, secondo quanto ha dichiarato alle Iene il superteste – finora mai ascoltato dalla Procura – Davide Vannicola, l’artigiano di Tolfa che avrebbe ricevuto questa ed altre rivelazioni dall’amico di sempre Roberto Izzo, comandante della caserma di Ladispoli in cui i Ciontoli venivano portati mentre Marco moriva in ospedale per la ferita da arma da fuoco.

Ciontoli, a caldo, avrebbe detto a Izzo che i suoi familiari “avevano fatto un guaio”. Si sarebbe addossato lui la colpa per non “inguaiare” il figlio Federico.

Avete capito bene: sapevano già, Ciontoli e Izzo, che ad un uomo dei Servizi la magistratura italiana concede impunità diffuse, compresa – se fosse vera questa ricostruzione –  quella per l’omicidio a freddo e la tortura di un giovane innocente di vent’anni. Lo sapevano, lo hanno programmato. E così è stato: il 29 gennaio di quest’anno la Corte d’Assise d’Appello di Roma presieduta da Andrea Calabria (fra i giudici anche lo scrittore di best seller Giancarlo De Cataldo) ha ridotto ad appena 5 anni la pena comminata ad Antonio Ciontoli, che in primo grado era stato condannato a 14 anni, trasformando l’imputazione in omicidio colposo.

Davide Sannicola nel servizio di Giulio Golia per le Iene

Una rivelazione, quella colta da Giulio Golia, che apre uno squarcio fosco sulle stragi di Stato impunite, dalla stazione di Bologna all’Italicus, da Ustica ai casi Moro e Cirillo. «Senza contare – commenta un esperto di 007 nostrani – la recente, ennesima pietra tombale calata dalla Procura di Roma sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, altro massacro giudiziario. La verità sta sempre tutta lì, in quel patto scellerato che rende la magistratura italiana un “mostro” a due teste, feroce con i deboli, ma capace di omettere prove e ignorare testimoni che sono sotto gli occhi di tutti, pur di assicurare l’impunità ad assassini conclamati, quando arrivano “ordini superiori”».

Ad avvalorare la ricostruzione delle Iene ci sono, del resto, altre testimonianze di ferro. A cominciare da quella del carabiniere Manlio Amadori il quale, già deponendo in aula al processo d’appello, aveva ricordato che Ciontoli, giunto in caserma, aveva pronunciato la stessa frase: mi addosso la responsabilità per non rovinare la vita di mio figlio Federico. Ben sapendo, quindi, che lui l’avrebbe fatta franca.

 

IL CONVITATO DI PIETRA

Ma, a ben guardare, lo schermo di protezione dell’uomo dei Servizi, Antonio Ciontoli, ha origine fin dalle prime fasi delle indagini. Almeno da quando i Ciontoli hanno tutto il tempo di ripulire l’appartamento dal sangue di Marco prima che arrivi una perquisizione. O almeno da quella inspiegabile scelta della Procura di non ascoltare nessuno dei vicini di casa dei Ciontoli nella piccola palazzina di Ladispoli. Ad esempio Cristina che, intervistata da Golia, spiega di non aver visto nelle prime fasi della tragica vicenda, quella sera, l’auto di Antonio Ciontoli parcheggiata al solito posto. O le due pendolari che ricordano, nella puntata del 7 maggio, di aver ascoltato distintamente sul treno la conversazione di una persona molto vicina ai Ciontoli la quale spiegava che i genitori quella sera non si trovavano in casa, erano a cena da amici e sopraggiungevano solo dopo “il guaio”.

 

L’OMBRA DI NAPOLI

27 anni, fratello di Martina, Federico Ciontoli è stato allievo della Nunziatella, la scuola militare a Monte di Dio, Napoli, che ha avuto fra i suoi ex alunni personaggi di spicco dei Servizi come il Capitano Ultimo. Eppure Federico, difeso al processo dal penalista napoletano Domenico Ciruzzi, ha dichiarato in udienza di non conoscere l’uso delle armi, ma di aver solo preso e poi riposto le pistole del padre, ritenendo che fosse partito un colpo a salve, una “bolla d’aria”.

Tuttavia, il passaggio decisivo, in questa vicenda, è ancora un altro.

il giudice Massimo Marasca

Siamo al 9 febbraio del 2016. Dinanzi al Tribunale di Civitavecchia, dove si attende la decisione del Gup sull’omicidio di Marco e il rinvio a giudizio di Ciontoli, richiesto dal pm Alessandra D’Amore, arriva una fiaccolata di amici e gente comune. Che pretende la verità e chiede giustizia.

Nell’ufficio Gup, a decidere, c’è un altro magistrato napoletano. Si chiama Massimo Marasca. Ed è nipote di Gennaro Marasca, magistrato napoletano noto come esponente di Magistratura Democratica.

Marina Conte, madre di Marco Vannini

Di fronte alle prove sulla responsabilità dei Ciontoli, inchiodati dalle telefonate tardive registrate dal 118 (la prima, in cui la madre di Federico, la casertana Maria Pezzillo,  chiama, ma subito dice che “non serve” mentre si sente distintamente Marco urlare agonizzante, e la seconda, di circa mezz’ora dopo, quando Antonio Ciontoli richiama, dicendo che il ragazzo si è ferito con la punta di un pettine), il Gup non può che accogliere la richiesta del pm Alessandra D’Amore, rinvio a giudizio con l’ipotesi di omicidio volontario. Sarà poi il processo a dover confermare i fatti o a ribaltarli, come accaduto in appello.

Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta

Al Gup Marasca tocca anche il compito di decidere sulle richieste delle parti. L’avvocato della famiglia Vannini, Celestino Gnazi, chiede che venga ammessa la responsabilità del Ministero della Difesa, da cui dipende l’arma dei Carabinieri. Marasca respinge questa richiesta. La Difesa resterà fuori dal processo, con tutto ciò he questo comporterà dal punto di vista morale (e materiale) per mamma Marina e papà Valerio, privati del loro unico figlio.

«Se fosse stata accolta la richiesta di mandare a processo anche il Ministero della Difesa – spiega un penalista – il caso avrebbe assunto ben altro valore, anche dal punto di vista mediatico ed istituzionale. Ricordo ad esempio che a gennaio di quest’anno il Tribunale di Genova ha condannato il Ministero a versare somme ingentissime ai familiari di marittimi morti per l’amianto a bordo di navi militari». In sentenza il Tribunale ligure ha scritto che «il danno da perdita del rapporto parentale va al di là del mero dolore che la morte di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi nella “irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità». In quel caso, però, non erano coinvolti rappresentanti dei Servizi. Nonostante la portata epocale della sentenza, è difficile infatti ritrovarne traccia sui media.

Ben diversamente è andata per l’omicidio di Marco Vannini. A cominciare proprio da quel rifiuto del Gup Marasca di accogliere il Ministero della Difesa tra i responsabili, sia pure indirettamente.

Ad evidenziare tutto il peso he ebbe quella decisione, è arrivata in questa settimana, a sorpresa, la telefonata in diretta del ministro della Difesa Elisabetta Trenta al programma “Accordi e Disaccordi” condotto sul 9 da Andrea Scanzi. Durante la puntata in cui era ospite Marina Conte, la madre di Marco rimasta all’affannosa ricerca di giustizia e verità per la vita stroncata di suo figlio, il ministro Trenta ha assicurato che la Difesa non resterà inerte ed andrà a fondo per trovare le responsabilità di questa vicenda.

Una conferma ulteriore del fatto che quella richiesta della famiglia Vannini poteva e doveva essere accolta dal giudice Marasca.

Ma chi è Marasca?

Cristiano Di Pietro

E’ sicuramente un magistrato molto simpatico ad Antonio Di Pietro, l’ex pm che, per sua stessa ammissione, all’indomani delle stragi di Capaci e Via D’Amelio fu trasferito dai Servizi segreti in una località protetta del Nicaragua.

Lo stesso uomo, Di Pietro, che prima di diventare magistrato aveva lavorato per il ministero dell’Aeronautica presso una postazione dell’Ustaa (Ufficio sorveglianza tecnica armamento aeronautico) e in particolare controllava l’Aster di Barlassina, azienda che lavorava per l’Esercito in stretto contatto con il Sismi.

Torniamo alla domanda. Esiste un feeling fra il giudice di Civitavecchia Massimo Marasca ed Antonio Di Pietro? Non lo sappiamo. Di sicuro, però, Di Pietro ha “gradito” con enorme soddisfazione la condanna al risarcimento danni da ben 100mila euro inflitta nel 2013 da Marasca – all’epoca giudice al tribunale civile di Sulmona – alla Voce, “rea” di aver pubblicato nel 2008 un articolo di Alberico Giostra, giornalista Rai, nel quale si ricordava l’aiuto amichevole fornito al figlio di Di Pietro, Cristiano, alle prese con l’esame di maturità, dalla professoressa Annita Zinni, compaesana di Di Pietro: nata a Montenero di Bisaccia, è notoriamente amica della sua famiglia.

Zinni aveva citato la Voce accusando un “patema d’animo transeunte”, documentato solo dal certificato del suo medico Asl e da una psicologa del posto. Tanto è bastato a Marasca, nonostante la contemporanea escalation politica della Zinni in Italia dei Valori, per condannare la Voce ad un risarcimento record da 100.000 euro cash in favore della Zinni. Una somma mai assegnata nemmeno per la diffamazione di un presidente della Repubblica o di un capo del Governo.

Filippo Roma

Un caso talmente clamoroso, quello della Voce, che ad occuparsene erano state proprio le Iene, col giornalista Filippo Roma che, intervistando Cristiano sulle capitali europee, lo trovava clamorosamente impreparato e realizzava uno dei filmati più esilaranti che siano mai stati inseriti su You Tube.

Solo che per il destino della Voce, c’è poco da ridere: Marasca è tornato alla carica: ora pretende altri 80.000 euro. Stavolta per risanare il suo “onore” offeso dalle cronache giudiziarie pubblicate dal giornale.

E per il massacro di Marco Vannini, dopo la richiesta avanzata da Ciontoli, che chiede alla Cassazione di ridurre a sei mesi, minimo edittale per l’omicidio colposo, la condanna a cinque anni, resta solo da piangere.