L’OMICIDIO DEL GIUDICE CACCIA / SE 35 ANNI VI SEMBRAN POCHI

35 anni dall’assassinio del procuratore capo della procura di Torino Bruno Caccia. Assicurati alla giustizia i killer, restano al solito ancora a piede libero i mandanti dell’atroce episodio, mentre il giudice portava a passeggio il suo cane.

Ad uccidere il coraggioso magistrato torinese, il primo ad indagare sulle piste dei riciclaggi della ‘ndrangheta al nord, fu un commando di quattro assassini.

Dopo inchieste durate anni, complicate da una serie di fatti concatenati (ad esempio le coperture di toghe che lavoravano in altri tribunali del nord), le sentenze si sono fatte man mano strada. Ma colpendo, fino ad oggi, i semplici esecutori materiali, ben lontani dall’essere assicurati alla giustizia le menti che avevano organizzato quella scientifica eliminazione.

Ed è così che viene prima condannato Domenico Belfiore, boss ora ai domiciliari per una grave patologia. Mentre un anno fa è scattato l’ergastolo per Rocco Schirripa: secondo le ipotesi accusatorie della Corte d’Appello di Milano, infatti, il panettiere tuttofare arrestato a dicembre 2015 ha fatto parte del commando che quella serà freddò il magistrato.

Il delitto Caccia. Sopra, il magistrato Bruno Caccia

Un magistrato che per la prima volta aveva trovato traccia dei riciclaggi iniziali delle ‘ndrine in Piemonte e in Val d’Aosta. Quando non c’era la minima consapevolezza che clan di camorra, cosche di mafia e ‘ndrine calabresi avessero cominciato ad affacciarsi oltre i confini regionali.

E proprio per questo quel giudice ficcanaso “Doveva morire”. Soprattuto perchè era sulle piste dei maxi investimenti e dei primi maxi riciclaggi della malavita organizzata, a partire dai sequestri di persona, allora in voga.

Quelle montagne di danari trovarono subito una prima, facile meta: gli ospitali Casinò del nord ovest (Val D’Aosta ben compresa), dove venivano stesi tappetti rossi per chi aveva intenzione di scommettere (e lavare) montagne di soldi.

Un Eldorado, allora, per faccendieri di tutte le risme, anche per cosiddetti i cosidddetti ‘accompagnatori’, i colletti bianchi che facevano incetta di danarosi e facoltosi dediti al tavolo verde. Quindi, una doppia facile via: i malavitosi doc e i ricconi alle prese con la fregola del gioco. Una pacchia.

La Voce ha scritto un paio di reportage sul tema. E se volete saperne di più potete legge l’istruttivo “L’Affaire Briatore – una storia molto italiana”, scritto da Andrea Sceresini e Maria Elena Scandaliato nel 2016 per l’editrice Melampo.

Ma resta un interrogativo di fondo: che fine ha fatto l’inchiesta sui mandanti a volto coperto dell’assassinio del giudice Caccia? Un altro buco nero nelle miserevoli storie di giustizia negata.

E la famiglia dopo oltre un terzo di secolo attende ancora la verità.

 

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