REGI LAGNI – SCANDALO ARCIMILIARDARIO DA TRENT’ANNI

Regi Lagni, un disastro ambientale lungo trent’anni. Un colossale scempio costato alle casse pubbliche palate da miliardi di vecchie lire, una vena a perdere continua, irrorata da milioni di euro gettati al vento, anzi finendo per aggravare il problema.

Uno scandalo periodicamente portato in video dalle telecamere di Striscia la notizia: ultimo servizio lo scorso 8 maggio, immortalata addirittura la stessa auto gettata in un canalone è già ripresa svariati mesi fa. Stesso fango, stessi rifiuti tossici, stessi odori insopportabili, stesse acque nere e putride. Un impianto da due milioni di euro che sulla carta dovrebbe impedire ai rifiuti speciali di finire in mare: mai entrato in funzione, a quanto pare perchè i comuni non si mettono d’accordo per il pagamento delle spese di manutenzione, 50 mila euro al mese. “I poco regali Regi Lagni”, il titolo del primo reportage di Striscia, anni fa.

Uno scandalo cominciato oltre trent’anni fa, all’indomani del dopo terremoto 1980. Nel calderone delle opere pubbliche previste si andò ben oltre la “ricostruzione” di case e aziende distrutte. Occorreva spendere a più non posso, e quindi i confini geografici vennero dilatati a dismisura: tanto che più della martoriata Irpinia fu il napoletano a godere dei maggiori finanziamenti. Un vero e proprio Napoligate, visto che proprio a Napoli, in quel periodo, cresceva rigogliosa una fitta classe dirigente – Pomicino, Gava, Scotti, De Lorenzo, Di Donato – ancor più rampante e famelica dei De Mita di turno, che pur fece realizzare le ‘nuove’ fabbriche’ in montagna. Ma fu il partito della “spesa’ – capitanato da ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino, che a giusta ragione diventerà prima presidente della strategica commissione Bilancio poi ministro proprio del Bilancio – a dettare le regole: e quindi, via con fondi pubblici a go go, anche per opere che nulla avevano a che vedere con il dopo terremoto. In una vasta a nord di Napoli, appena entrati in provincia di Caserta, si pensò bene di realizzare una serie di viadotti a poca altezza dal terreno, del tutto inutili, ma costosissimi. Chilometri e chilometri di bretelle, come quella di Sant’Antimo, “elastica” al punto giusto, perchè il tracciato variava di continuo, toccando comuni non previsti e aumentando il chilometraggio: tanto per assecondare i voleri dei rampanti Casalesi, che già avevano il controllo del movimento terra e dei subappalti (una piantina del tracciato venne trovata nelle tasche di un affiliato al clan Zagaria, siamo a metà anni ’80).

Ma la chicca fu proprio quella dei Regi Lagni. Cosa di meglio di una bonifica (sic) mangiasoldi? Base di partenza – udite udite – 600 miliardi di vecchie lire, che man mano lieviteranno fino a sfiorare il tetto dei mille (e tutto senza contare le palate di tutti gli anni seguenti, per “fingere” di bonificare e realizzare impianti – come visto – fantasma). Titolò la Voce una sua inchiesta di gennaio 1988 “Miliardi nel fango”: dettagliavamo per filo e per segno i nomi delle imprese coinvolte – il gotha dei mattonari campani – con tanto di subappalti facili alle sigle di camorra (gli emergenti Casalesi); e poi i nomi dei progettisti, in pole position l’ingegnere idraulico – poteva mai mancare un esperto di acque & miliardi? – ossia Vincenzo Maria Greco, l’uomo ombra di Pomicino per tutto il vastissimo fronte di opere pubbliche, dal terremoto fino alla Tav. Progetti del tutto sballati, tecnicamente folli: veniva prevista una maxi impermeabilizzazione dei terreni – altro che bonifica – tanto per spendere meglio, una super cementificazione in piena regola ma finendo per aggravare il problema, perchè ad ogni pioggia tutta la zona si allagava. E’ la stessa logica che ha portato al disastro del Sarno, costato la vita a tanti innocenti a fine anni ’90: guarda caso, molto progettisti sono gli stessi, guarda caso non hanno subito alcuna condanna, non hanno pagato per gli enormi danni causati, caso mai si sono visti riassegnare le progettazioni per il “risanamento”. E lo stesso copione rischia di andare in scena con le bonifiche per la Terra dei Fuochi: per la serie, chi ha scaricato montagne di rifiuti speciali, tossici e supernocivi, non solo l’ha fatta franca, ma ora punta a vedersi assegnare appalti e soldi pubblici per le bonifiche.

E’ proprio quello giudiziario, infatti, uno dei punti dolenti. L’inchiesta sui maxi sperperi per i Regi Lagni ha partorito il classico topolino: piccolissime condanne per pesci microscopici (qualche trasportatore locale), niente – ovviamente – per grandi imprese, politici di riferimento, big della camorra (e relative sigle in subappalto), faccendieri e colletti bianchi. Tutti liberi e belli, dopo essersi spartiti una maxi torta da quasi mille miliardi di vecchie lire: cifre a tutti gli anni ’80, con un bottino che evidentemente ha avuto modo di ingrossarsi ad ogni piena, a tutte le piogge, per le finte bonifiche, i finti impianti, le finte depurazioni di acque sempre più putride, melmose e in grado di veicolare malattie d’ogni sorta.

Del resto, flop anche per l’inchiesta sul Sarno e, soprattutto, per il maxi processo sul dopo terremoto, costato anni e anni di indagini, montagne di carte, sbagliando in modo clamoroso il capo di imputazione: corruzione e/o concussione, quando era chiaro come il sole che si trattava di 416, ossia associazione a delinquere, visto che – per ammissione degli stessi imputati, politici e imprenditori – non c’era mai stata alcuna minaccia, erano tutti amici, d’accordo nel gestire quei soldi e quei lavori. Ma sarebbe stato necessario aggiungere, al 416, un piccolo bis, ovvero associazione a delinquere di stampo mafioso: perchè al tavolo delle trattative prima (“sancite” all’epoca del rapimento del dc Ciro Cirillo, guarda caso potente assessore regionale all’urbanistica) e della spartizione poi, sedeva un terzo convitato, la camorra. Però – autentico miracolo – nelle migliaia di pagine dell’inchiesta sul post terremoto, la camorra non è mai entrata, neanche per sbaglio: quando invece il mega rapporto della Commissione Scalfaro sul dopo terremoto ha documentato il rapporto organico partiti-imprese-camorra, e decine di inchieste della Voce (nonchè il libro “Grazie sisma, dieci anni di potere e terremoto”, edito dalla Voce e della Publiprint di Trento nel 1990) hanno dettagliato – per fare un solo esempio – tutte le “portappalti”, ossia le imprese di comodo e riconducibili a questo o a quel politico (col solito Pomicino a farla sempre da padrone), e anche collegate – via subappalti – alla camorra. Una connection (politici-imprese-camorra) sotto gli occhi di chi voleva vedere: e del tutto assente – autentico miracolo di San Gennaro – nella maxi inchiesta sul post terremoto: che si è quindi chiusa con una allegra, super prevista Prescrizione Salvatutti. Cosa sarebbe successo, invece, con quella chiara imputazione per 416 bis? Un processo che poteva andare in porto. Imputati che avrebbero potuto pagare il conto. In galera.

E invece, tutti liberi come fringuelli: a godersi i bottini messi al sicuro nei paradisi off shore. E caso mai anche i vitalizi. Perchè ‘O ministro Pomicino sui trenta e passa processi ha sempre vinto a botte delle miracolose Prescrizioni: solo una condannuccia per la maxi tangente Enimont, due anni e rotti per finanziamento illecito. (Pomi) Cin Cin.

Qui sotto, l’articolo originale della Voce di gennaio ’88.

In apertura, l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino e, sullo sfoindo, i Regi lagni.

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