GIUSTIZIA DI CASA NOSTRA / DISCO VERDE PER CORROTTI E FASCISTI

Saluti & inni fascisti? Non sono più reato. Corrompere un arbitro, non di calcio, ma per dirimere controversie da milioni di euro? Si può tranquillamente fare, non c’è problema.

Due sentenze da brividi, nel giro di poche ore, per farci capire fino in fondo quanto la giustizia italiana sia ormai caduta in un abisso senza fine, dove ogni principio morale e civile viene travolto, ogni regola calpestata, ogni argine al degrado abbattuto.

Nelle stesse ore, incredibile ma vero, il tribunale del Riesame rimette in libertà una trentina di pericolosi mafiosi agrigentini, finiti in galera con una serie di addebiti da brividi, frutto di un’inchiesta durata due anni. Ora sono di nuovo liberi come fringuelli, a causa dell’ormai solito “vizio formale” che guarda caso – un po’ come la sempre miracolosa prescrizione – soccorre colletti bianchi e boss, mai i povericristi.

Ma veniamo alle due sentenze che capovolgono il mondo. Partiamo dalla prima, partorita dalla Suprema – sic – Corte di Cassazione, chiamata a dire la parola definitiva su una storia di tre anni fa, ossia una manifestazione organizzata a Milano da Fratelli d’Italia e alla quale presero parte parecchi attivisti di CasaPound. Tra essi Matteo Ardolino e Marco Clemente, immortalati dalle telecamere con il braccio ben teso in alto.

Da qui nasce il processo che li vede sul banco degli imputati con altri due camerati, tra cui l’ex consigliera provinciale di FdI Roberta Capotosti. A loro viene contestato quel “concorso in manifestazione fascista”, reato previsto dall’articolo 5 della legge Scelba. Si trattava di una manifestazione sì autorizzata, ma con la precisa diffida a non esporre simboli, soprattutto croci celtiche. Gli imputati vengono assolti nel 2016.

Ora parla la Cassazione. Per gli alti ermellini il reato contemplato dalla legge Scelba è “in pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’articolo 21 della Costituzione, ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”.

Quindi no problem d’ora in poi per nostalgici di Mussolini, per militanti di Forza Nuova e del suo leader Roberto Fiore che venne condannato negli anni ’90 a nove anni e mezzo per tentata strage, per fans di CasaPound: possono manifestare in santa pace (pace?), inneggiare, tendere il braccio destro al cielo, cantar “Faccetta nera” (ma “all’armi siam fascisti” a quanto pare no).

Sorge subito spontanea una domanda. Si può anche inneggiare a Hitler? Ai suoi forni? Alla Cassazione l’ardua sentenza.

Una sentenza, quella appena scritta, che fa non poco riflettere. In un momento storico come questo, in una contingenza dove l’odio razziale cresce a dismisura, i rigurgiti fascistoidi sono all’ordine del giorno, lo squadrismo torna a manifestarsi in tutta la sua imbecille violenza, le frasi della Cassazione sono vera benzina sul fuoco: una sorta di legittimazione dell’apologia fascista, nelle sue forme rituali. Era proprio il caso di buttare un fiammifero nella polveriera? Basta sbandierare (fuori luogo) l’articolo 21 per dar libero sfogo all’esaltazione dei miti pro razza, pro dittatura e pro violenza?

 

CORROMPETE E MOLTIPLICATEVI

Passiamo al secondo tema bollente, la corruzione. E’ passata sotto il generale silenzio mediatico (solo il Corriere della Sera ne ha scritto) una sentenza del tribunale di Milano a proposito di arbitrati, che spesso e volentieri sostituiscono le sentenze dei tribunali civili ordinari. Si tratta, molte volte, di contenziosi milionari, che vedono contrapposti anche pezzi da novanta dell’industria. Un settore, quindi, non poco delicato.

Luigi Ferrarella

Ecco l’incipit di un articolo del quotidiano di via Solferino firmato da Luigi Ferrarella: “corrompere l’arbitro non è reato, sentenzia il tribunale penale di Milano in un’inchiesta che ipotizzava la promessa di una tangente dietro un arbitrato da 2 miliardi di euro”.

Ecco, per sommi capi, la storia. Il colosso assicurativo statunitense Am Trust e il suo broker Antonio Somma dieci anni fa sono in affari, per far sottoscrivere assicurazioni a medici e ospedali, una gran mole di polizze (i camici bianchi, ad esempio, sono ben 40 mila). Nel 2014 Am Trust e Somma rompono, cominciano le contestazioni e le due parti, invece di avviare il solito, estenuante contenzioso civile, decidono di comune accordo d’affidarsi ad un arbitrato. Non disprezzabile la cifra in ballo, 2 miliardi di euro.

Come di prassi, le due parti scelgono ciascuna il nome di un arbitro, mentre il terzo – ossia il presidente dl collegio – viene designato dal capo del tribunale di Milano, all’epoca Livia Pomodoro. L’opzione di quest’ultima cade su un docente di Economia aziendale e addirittura membro del collegio sindacale dell’Eni, Marco Lacchini. Dopo pochi mesi, però, viene chiesta dagli americani la ricusazione del ‘prestigioso’ docente perché alcuni 007 incaricati dalla Am Trust scoprono che tra Somma e Lacchini è intercorso un patto corruttivo: tu mi fai vincere l’arbitrato e io ti corrispondo il 15 per cento dell’importo ‘conteso’. Il tribunale di Milano, a questo punto, accoglie il ricorso a stelle e strisce per la ricusazione dell’arbitro sospetto.

Nel frattempo le due parti trovano per conto loro un’intesa, che fa ottenere al broker campano, mediante una transazione, 60 milioni di euro,

L’ingresso del tribunale di Milano, di cui vediamo in apertura l’immagine della Giustizia nell’atrio

Il procedimento per la ricusazione, tuttavia, ha attivato la procura di Milano, dove il 9 giugno 2017 il pm Roberto Pellicano chiede l’archiviazione al gip, Manuela Accurso Tagano. La quale, per la sua decisione, si rifà a quanto stabilito da un decreto legislativo proprio in materia di arbitrati secondo cui “agli arbitri non compete la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”. Motivo per cui pagare e/o corrompere un arbitro non sarebbe, in teoria, un reato: né corruzione propria, né corruzione in atti giudiziari e neanche corruzione tra privati.

Sorgono spontanei due interrogativi. Ma quali folli menti hanno emanato quel decreto legislativo? E perché mai viene pedissequamente applicato dalle toghe di casa nostra?

Commenta Ferrarella: “Ora lo scrive una sentenza: dopo la modifica, anche alla luce indirettamente di due sentenze di Consulta e Cassazione, ‘il rapporto in forza del quale gli arbitri esercitano le loro funzioni è e rimane pur sempre privatistico. E non viene meno per il solo fatto che la loro attività sia regolata dalla legge, si traduca nella applicazione della legge e abbia gli stessi effetti di una sentenza’”.

Aborti della giustizia di casa nostra. Dove gli arbitri possono essere comprati e venduti come al mercato delle vacche. Vacche, però, arci milionarie.

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