Le pecore nere del giornalismo

Il giornalismo, nell’accezione più alta della professione, è un gran bel lavoro. Nel corso degli anni l’impegno permanente di leggere la complessità dei comportamenti umani costruisce un patrimonio di saggezza e di acume del racconto, soprattutto se alimentato giorno dopo giorno. Un tempo l’esclusività della carta stampata di comunicare è stato raddoppiato con il percorso parallelo della televisione, strumento potente e delicatissimo, di cui si sono appropriati i partiti, con una spartizione delle principali testate che ha messo in costante e seria discussione l’obiettività. Sono proliferate le emittenti locali, affare appetibile fondato sulle vendite di ogni cosa, dai quadri alle pellicce, agli orologi, ai materassi, agli oroscopi di pseudo indovini. Il caos dell’etere ha sollecitato la messa a punto sull’etica della professione. L’esito è nella triplice conclusione descritta di qui in avanti. La maledizione dell’audience, sinonimo di introiti da budget pubblicitario, ha introdotto nei palinsesti filiali e succursali della cronaca nera e giudiziaria da studio: conduttori criminologi, criminologi veri, preferibilmente donne di bell’aspetto, psicologi, testimoni a volto coperto, chissà se autentici o figuranti pagati, plastici (leggi Vespa) dei luoghi dove avvengono omicidi, meglio se “efferati”. Ma il clou del solletico al voyerismo, alla pruderie, al “fascino del macabro” è affidato a giornalisti d’assalto, specialisti nel ottenere che intervistati/e concludono in lacrime rivelazioni dolorose. Muore bruciato vivo un innocente ragazzino, il corpo non si trova. Poi è trovato, sepolto in campo abbandonato, ma la madre non lo sa e spera che sia vivo. L’intervistatore: “Signora, si faccia forza, il bambino è stato ucciso”. Pianto dirotto in diretta della povera donna, picco di ascolti per un classico caso di sciacallaggio televisivo. Meno eclatante, non meno grave, è l’autocensura di redattori che si privano della libertà di pensiero, vittime del diktat dei “capi”, emanazione della forza politica che assume, promuove, concede premi ad personam agli interpreti senz’anima dei propri interessi politici ed emargina i redattori con la spina dorsale dritta. Il terzo caso è il più incompatibile con la professione. X,Y, giornalista con ruoli di autonomia in una certa testata, si erge a paladino di una difficile, coraggiosa guerra senza quartiere alla malavita organizzata. Somiglia molto a quei politici che hanno proclamato a voce alta di sconfiggere la mafia e ottenuta la relativa credibilità di fustigatori del male hanno stretto patti di complicità con i boss.

Esemplare è la storia di Pino Maniaci, proprietario, direttore, conduttore di Telejato, piccola, ma seguitissima emittente siciliana di Partinico. Il signore in questione con dichiarazioni, denunce e autointerviste, ha costruito nel tempo un sé di antimafioso, di eroe del nostro tempo sul modello di Impastato, trucidato dalla mafia perché voce antagonista. Il mondo che dispensa riconoscimenti al giornalismo di denuncia, soprattutto se apertamente schierato contro la malavita organizzata, non ha risparmiato premi al signor Maniaci. Il reiterato riferimento a minacce e attentati di mafiosi sembra però costargli caro. Intercettato telefonicamente, si scopre che usa gli spazi televisivi per ricattare amministratori pubblici e in particolare il sindaco di Borgetto, con la minaccia di sputtanarlo e di mandarlo a casa. La telecamera posta nella stanza del primo cittadino mostra il passaggio di 350 euro nelle tasche di Maniaci che si lamenta: “me ne servono di più” (quasi 500). I ricatti fruttano anche l’assunzione al Comune di Partinico dell’amante. Autore delle minacce ricevute, esibite come conseguenze delle battaglie contro la mafia, in realtà le pronuncia il marito dell’amante. La vicenda avrà un suo esito processuale, altri casi analoghi rimarranno impuniti. La tecnica di giornalisti senza scrupoli e avidi consiste nell’utilizzare la scoperta di azioni e comportamenti scandalosi da parte di politici o imprenditori. Su quegli scheletri negli armadi si monta una campagna di stampa, a dosi successive, senza concluderla. Alla vigilia del “botto”, l’autore dell’inchiesta presenta il conto al destinatario delle rivelazioni e promette (e mantiene) l’impegno a salvarlo dietro adeguato compenso. L’inchiesta finisce nel nulla e a chi ne chiede ragione la risposta è “mancavano prove sicure”. Se dopo questa campagna etica fosse scossa la fiducia nel giornalismo, sarebbe un errore. Per fortuna le pecore nere sono davvero poche.

Nella foto Pino Maniaci

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