30 ANNI E PASSA DA ‘MANI PULITE’ / DAVIGO E DI PIETRO: ATTENTI A QUEI DUE

Ricordate le parole pronunciate meno di un mese fa, in clima prenatalizio, dall’ex pm di punta del pool ‘Mani Pulite’ a Milano, poi presidente della Terza seziona penale della Cassazione quindi membro del Consiglio Superiore della Magistratura, Piercamillo Davigo, nel corso del podcast Muschio Selvaggio’ condotto da Fedez qualche giorno prima del botto sui pandori dorati della sua compagna Chiara Ferragni?

Bene, un can can durato solo poche ore, poi sparito dai radar mediatici.

Perciò val la pena di rinfrescare la memoria su quelle parole che, invece, pesano come macigni.

Ecco alcune frasi griffate Davigo sulla stagione di Tangentopoli e le imprese del pool milanese: “Purtroppo, per quanto sia crudo quel che sto dicendo, in questo mestiere capita che gli imputati si suicidino. La mortalità nelle carceri per suicidio è più alta che fuori”.

 

SPIACEVOLI” SUICIDI

Tanto per precisare meglio: “Lo so che è una cosa spiacevole, ma è la verità. Bisogna aver chiare le cose: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono. Perché altrimenti il ragionamento porterebbe a dire: allora non fate le indagini”. Fa il paio con le frasi celebri d’un tempo: “male non fare e paura non avere” oppure “rivolteremo l’Italia come un calzino”…

In risposta ad una domanda di Fedez se avesse mai provato in passato un po’ di dispiacere per certi fatti successi, così ha spiegato: “Ma certo che dispiace… Prima di tutto, se uno decide di suicidarsi, lo perdi come fonte di informazioni”.

Incredibile ma vero

E, non soddisfatto, ha subito aggiunto: “Certo che uno ha un po’ di dispiacere, la pietà umana c’è lo stesso. Però, bisogna tenere la barra del timone ferma”.

Parole che fanno correre i brividi lungo la schiena.

E sulle quali occorrerebbe riflettere a lungo.

Gabriele Cagliari. Sopra, Di Pietro e Davigo, ieri e oggi

Rammentiamo solo di sfuggita ai lettori il caso di due ‘suicidi’ che all’epoca fecero parecchio parlare, ma non poi troppo, e le cui dinamiche-motivazioni non sono mai venute del tutto a galla, lasciando parecchie zone oscure. Si tratta delle morti in carcere di Gabriele Cagliari, all’epoca numero uno dell’ENI, e di Raul Gardini, a capo del gruppo Enimont, proprio la mattina dell’interrogatorio clou con il ‘suo’ pm, Antonio Di Pietro, quel fatidico 23 luglio 1993.

A seguire mettiamo insieme, come tessere di un puzzle, oppure capitoli di un giallo, alcune vicende raccontate dalla ‘Voce’ negli anni ’90 e non solo.

 

 

 

CRAXI? UN GANGSTER, SECONDO DAVIGO

Partiamo proprio con un’intervista rilasciata a settembre 1996 dallo stesso Davigo, sul tema di Mani Pulite, ad un docente universitario di storia contemporanea della Federico II di Napoli, Luigi Musella, il quale da un paio di mesi aveva cominciato a collaborare con la Voce.

A seguire riportiamo un paio di risposte dell’allora pm di punta del pool meneghino

Lo strumento della custodia cautelare ha effettivamente prodotto effetti consistenti per le indagini. Ma ciò non significa assolutamente che esso sia stato applicato in maniera difforme dalle leggi o eludendo le garanzie previste. Tutt’altro”.

Bettino Craxi

A proposito di uno degli inquisiti eccellenti, Bettino Craxi. “Craxi? Un gangster. Il suo partito era in pratica una gigantesca corrente, proprio perché aveva realizzato una forte personalizzazione di tutta la struttura. Anche nel Pci c’è stata una corrente, una sola, ma che non è sfuggita alle ‘regole’: quella dei miglioristi. Il caso Cervetti è emblematico in questo senso”.

Sapete cosa successe dopo quell’intervista?

Craxi si trovava in Tunisia, ma venne a sapere in tempo praticamente reale di quel ‘gangster’pronunciato da Davigo. Ad informarlo, si disse all’epoca, il numero uno del garofano di Napoli (e anche vice segretario nazionale del Psi dal 1989 al 1993), Giulio Di Donato. La pistola ‘fumante’, quella parola, per dar corpo al sospetto di un vero e proprio teorema accusatorio elaborato dalla Mente del Pool, proprio Davigo.

Per questo Craxi, a quel punto, decise di querelare Davigo. Il quale, intuendo di aver commesso un ‘errore’ e di essere scivolato sulla classica buccia di banana, pensò bene di smentire tutto: sostenne di non aver mai affibbiato quell’epiteto al segretario del Psi. Circostanza non vera, perché Luigi Musella aveva registrato l’intervista e quella parola era ben chiara e distinta.

Ma il processo che iniziò a Milano, ed al quale eravamo stati convocati in qualità di testi, finì ben presto, per la morte di Craxi ad Hammamet.

 

 

L’INFERNO DI WALTER ARMANINI

Passiamo agli altri componenti del pool.

Per via di una seconda, clamorosa intervista pubblicata dalla Voce, appena qualche mese dopo, gennaio 1997.

 

L’inchiesta della Voce di gennaio 1997


 

A parlare, l’imprenditore milanese Walter Giulio Armanini, condannato in via definitiva a 5 anni e 7 mesi di galera e all’epoca ad Orvieto, “in permesso premio concesso ai detenuti come lui che, già segnalatisi per buona condotta, hanno chiesto e ottenuto la facoltà di lavorare”. Nella lunghissima intervista, Armanini descrisse i suoi rapporti con Craxi, che gli erano sostanzialmente costati quella condanna; e raccontò una serie di episodi da brivido, che la dicevano lunga sui ‘metodi’ utilizzati dal pool: in particolare, nel suo caso, da Gherardo Colombo, Italo Ghitti e Antonio Di Pietro. Val la pena di riportare, fior tra fiore, alcuni passaggi salienti.

A proposito di Craxi. “Quanto al CAF (l’asse dell’epoca Craxi-Andreotti-Forlani, ndr) è fin troppo evidente che anche Craxi ha partecipato a quelle deviazioni nel segno del potere sfrenato, del favoritismo come stile di vita. Eppure resta l’uomo che ha avuto il coraggio di pronunciare i tre NO che hanno poi segnato la sua fine”.

E spiegò: “Intanto il caso Sigonella, quando diventa l’uomo che dice all’America ‘tu non atterri qui e non catturi i terroristi’. Un atto di coraggio che peserà poi sul suo futuro. E ancora il no alla Fiat, la mancanza di assenso agli ordini arrivati da Torino, da Agnelli, da Cuccia. Infine il no all’ingerenza della Chiesa nelle questioni dello Stato, la scuola privata liberalizzata, laica”.

Sulle accuse del pool nei suoi confronti: “Concussione ambientale, pazzesco. Io ho confessato spontaneamente d’aver ricevuto un contributo elettorale di 300 milioni di lire dai fratelli Gaslini e da Garampelli, tutti amici. Mai maneggiato un appalto, mai gestito un assessorato di quelli contano economicamente. Eppure ho dovuto restituire al Comune di Milano 100 milioni di tasca mia, per un presunto ‘danno morale’”.

Circa il ruolo svolto da Di Pietro: “Senta, chiariamolo subito: io mi sento un errore giudiziario vivente di Di Pietro. Come si fa a parlare di concussione se si chiede un aiuto ad un amico? E poi, pazzesco finire per 41 giorni in isolamento a San Vittore senza aver ricevuto mai nemmeno un avviso di garanzia… Da incensurato”.

Più nei dettagli: “Forse saranno solo coincidenze, ma certamente strane. Di Pietro è venuto a trovarmi in carcere una sola volta. Chi mi interrogava erano Ghitti e Colombo. Tanto per cominciare, quando arrivò Ghitti mi disse ‘so che lei prese 50 milioni dai Gaslini nel corso di una festa elettorale, perché a quella festa partecipò anche un giudice’. Il giudice era lui, Ghitti. Confessai quel contributo elettorale, peraltro elargito da persone amiche da trent’anni. Pensavo fosse finita”.

Così continuò il racconto: “E invece volevano che parlassi di Paolo Pillitteri (il cognato di Craxi ed ex sindaco di Milano, ndr). Certo, lo dissi, eravamo molto amici. Ma non sapevo altro. E così una sera verso mezzanotte il secondino mi annuncia che devono ‘appoggiarmi’ un detenuto. Era un nero in astinenza da eroina, che appena entrato mi vomita addosso e sulla branda. Roba da impazzire. Il giorno dopo arriva Colombo e vuol sapere di Pillitteri. Qualche tempo dopo, un nuovo appoggio: un altro extracomunitario che m’afferra per il collo e per poco m’ammazza, vengo a stento salvato dalla guardia. Due giorni dopo torna Colombo: cosa faceva lei con Pillitteri? In quei giorni, dal 19 maggio al 29 giugno del ’92, ho avuto un preinfarto, ho perso due diottrie ad un occhio e sangue dall’orecchio. E dire che ero riuscito a superare le perquisizioni anali d’ingresso…”.

Ancora su Di Pietro. “So che Craxi non parlava mai a caso. E per Di Pietro ha parlato chiaramente di ‘un bottino’. Una volta che lo vidi in carcere sembrava a dir poco ‘stressato’. Ricordo perfino i suoi calci contro il muro. Sapevano anche loro che andavano al di là del lecito. Sa cosa mi chiese a un certo punto Ghitti durante l’interrogatorio? ‘Professore, lei cosa penserebbe di un giudice che in circostanze estreme fosse costretto a travalicare le regole per il bene dello Stato e delle istituzioni?’. Gli risposi che un giudice è prima di tutto un garante delle istituzioni”.

Poche settimane dopo quell’intervista Armanini venne colpito, nella piazza principale di Orvieto davanti al Duomo, da un attacco di cuore.

E nella stessa Orvieto muore ad agosto 1999.

 

 

IL CASO DI PIETRO  

Passiamo all’Eroe del Pool, in quei mitici tre anni acclamato da tutti gli italiani come il Salvatore della Patria, al secolo Tonino Di Pietro.

Per la nostra ricostruzione facciamo ricorso di nuovo ad alcuni articoli e inchieste usciti sulla Voce, non poco istruttivi.

Partiamo da una nostra ‘esclusiva’ scoperta effettuata mesi prima dello scoppio di Tangentopoli, primavera 1991.

La copertina della Voce di maggio 1995


E
cco cosa successe. Su un quotidiano economico (forse il Sole 24 Ore) leggiamo di un interessante convegno fissato a Milano, sul tema dei reati finanziari e promosso dal Siulp, il sindacato di polizia. A quel convegno prendono parte anche alcuni magistrati. Chiediamo ad una amica e collega meneghina di andare a quel convegno, parlare con qualche relatore e se possibile avere il testo degli interventi più interessanti. Che riceviamo, e troviamo particolarmente stimolante quello firmato da uno sconosciuto pm della procura, un certo Antonio Di Pietro (tra l’altro un ex poliziotto).

A quel punto, pubblichiamo ampi stralci del suo intervento: fatto più unico che raro per noi, che perché rarissimamente allora ‘la Voce della Campania’ (diventata ‘la Voce della Voce’ più di 15 anni dopo, nel 2007) metteva in pagina pezzi che superavano i confini regionali. Ma facemmo quell’eccezione per due motivi: il tema era un nostro ‘must’, ossia proprio i reati finanziari e contro la ‘cosa pubblica’; e poi perché quei concetti espressi da una toga del tutto sconosciuta ci sembravano affrontati in modo diverso, e molto efficace.

 

E così fu. Pubblicammo quel pezzo e quando esplose il ‘giallo Mario Chiesa’ – con l’arresto del funzionario del Pio Albergo Trivulzio trovato con i milioni nel gabinetto – ci trovavamo proprio a Milano, per presentare alla ‘Statale’ il libro ‘O Ministro’ dedicato alle acrobazie dell’allora titolare del Bilancio, Paolo Cirino Pomicino; e nella stessa occasione due nostri grandi amici, Elio Veltri e Gianni Barbacetto, parlavano de ‘Milano degli scandali’.

Un modo come un altro per ‘anticipare’ il ciclone di Mani Pulite da due avamposti diversi, Napoli e Milano. Quest’ultimo si stava solleando proprio in quelle ore; mentre perché cominciasse a sollevarsi il coperchio sulle connection affaristiche partenopee dovrà trascorrere quasi un altro anno: il tempo, per noi della Voce, di coeditare ‘Sua Sanità’ (dedicato alle altrettanto acrobatiche imprese del ministro Francesco De Lorenzo) con la mitica ‘Publiprint’ trentina animata da Eugenio Pellegrini, la quale aveva pubblicato anche volumi usciti dalla penna, per fare solo due esempi, del giudice-coraggio Carlo Palermo e del prete altrettanto coraggioso, una vita dedicata agli ultimi della terra, Alex Zanotelli.

 

Ma riprendiamo il filo del discorso legato a don Tonino Di Pietro.

Perché ben presto ci accorgiamo che non è oro tutto ciò che luccica.

E’ infatti del maggio 1995 una nostra cover story, ‘Di Pietro chi?’, in cui ci poniamo e poniamo tutta una serie di interrogativi da non poco, e poco dopo la clamorosa decisione del più noto pm di casa nostra di abbandonare la magistratura, gettando in modo plateale la toga sul banco.

Procediamo sempre per tappe.

Il libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato

Una, basilare, è datata 1999, quando esce un libro che tutti gli italiani, forse ancor più oggi, dovrebbero leggere per capire cosa è stata sul serio ‘Mani Pulite’. Si tratta del vero capolavoro (e arci-profetico) ‘Corruzione ad Alta Velocità’ firmato da due grandi sul fronte dell’impegno civile, e storici amici della Voce (ci hanno per anni e anni regalato imperdibili interventi e autentiche contro-inchieste), ossia Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.

Ebbene un quarto di secolo fa, nel loro volume, già si alzava il sipario sul più grande scandalo della nostra storia repubblicana, quello dell’Alta Velocità, il famigerato TAV (Treno Alta Velocità) che partì a fine anni ’80 con poche decine di miliardi a bordo  per diventare nel tempo (e incredibilmente lo è ancor oggi) un gigantesco buco nero in cui sono state inghiottite valanghe di miliardi (prima di lire, poi di euro) ormai incalcolabili, fondi pubblici of course.

Imposimato e Provvisionato fecero due scoperte eccezionali.

Una è ancora oggi al centro di infuocate polemiche per quanto riguarda ciò che resta dei processi sulla strage di via D’Amelio: la pista degli appalti, quel dossier ‘Mafia-appalti’ elaborato dal Ros e finito sulla scrivania di Giovanni Falcone un anno e mezzo prima delle stragi (Capaci e via D’Amelio). “E’ il vero movente”, denunciano da anni le figlie Fiammetta e Lucia Borsellino, e documenta in aula (a Caltanissetta, dove è in vita l’ultimo filone processuale) il coraggioso avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia.

L’altro scoop contenuto in ‘Corruzione ad Alta Velocità’, poi, riguardava il ‘cuore’ di quel dossier: ossia la pista TAV. Tradotto in soldoni: Falcone e Borsellino avevano individuato il grande business, il maxi affare che rappresentava il collante tra mafie, politici collusi e imprese di riferimento. Per questo ‘dovevano morire’: rischiavano sul serio di arrivare, con anticipo, al vero cuore di ‘Tangentopoli’, alzando il sipario sulle connection tra grosse imprese del Nord e sigle mafiose riconducibili a Cosa nostra.

Un mix davvero esplosivo: da valere il tritolo per Capaci e via D’Amelio.

E sapete chi sapeva tutto su quell’affaire da novanta, il TAV?

E su quelle tresche?

Pier Francesco Pacini Battaglia

Il faccendiere-banchiere italo elvetico Pierfrancesco Pacini Battaglia, ‘l’Uomo a un passo da Dio’, come venne definito dal ‘suo’ pm: proprio don Tonino Di Pietro!

Non vogliamo tirarla per le lunghe, anche perché abbiamo più volte raccontato sulla Voce quella ‘story’ (che quindi potete ri-leggere seguendo le istruzioni in basso).

Per farla breve, Imposimato e Provvisionato documentano come la maxi inchiesta TAV, avviata sia dalla procura di Roma (sul fronte politico-amministrativo) che da quella di Milano (per quanto concerne il filone imprenditoriale), venne alla fine avocata a sé da Di Pietro, il quale poteva contare – questa fu la sua ‘scusa’ – su un asso nella manica chiamato Chicchi Battaglia.

Così tutto finì alla procura meneghina. Agli interrogatori, l’Uomo a un passo da Dio non si fece assistere da un principe del foro, come avrebbe potuto permettersi abbondantemente; ma da un avvocato appena sbarcato dall’Irpinia, tale Giuseppe Lucibello, il quale però, a sua volta, aveva un asso nella manica: era un grande amico di… Di Pietro. ‘Ottimo e abbondante’, quel ‘paglietta’, per garantire il percorso giudiziario del suo assistito: con ‘Chicchi’, infatti, il sempre ruvido Di Pietro (come mostrano anche le parole di Armanini) in modo non poco anomalo usò il guanto di velluto. E da quella inesauribile ‘fonte’, Pacini Battaglia, l’eroe di Mani Pulite non cavò un ragno dal buco. Tanto che il faccendiere che tutto sapeva alla fine non raccontò niente di penalmente rilevante, e non passò neanche una notte in gattabuia.

Solo mesi dopo si lascerà sfuggire dalla bocca, intercettato al telefono, le fatidiche parole, “mi hanno sbancato” (parte del ‘bottino’ cui Craxi si riferiva). Poi magicamente diventate, nel processo a carico di Di Pietro svoltosi a Brescia su svariati episodi di ‘corruzione’, “mi hanno sbiancato”. E la sentenza finale di quel processo la dice lunga: il Super Pm venne assolto perché gli addebiti non avevano rilevanza penale, ma il suo comportamento venne ampiamente censurato sotto il profilo morale e professionale. Non poco.

Nessuna sentenza, comunque, potrà mai cancellare né scalfire altri fatti in seguito venuti a galla, ma non tali da suscitare altre inchieste o indignazioni popolari. Ecco, in particolare, due vicende che hanno fatto capolino su dei grandi media, e poi immediatamente silenziate (e dalla Voce svariate volte rammentate).

L’inviato all’epoca de ‘La Stampa’, Maurizio Molinari (da alcuni anni direttore di ‘La Repubblica’), scrisse un pezzo in cui ricostruiva i primi anni della carriera di don Tonino, quando era ancora un oscuro pm a Milano. Ebbene, Molinari dettagliò gli incontri, cominciati circa un anno prima dello scoppio di Mani Pulite, tra Di Pietro e il console generale degli Stati Uniti a Milano, Peter Semler.

Sorge spontanea la domanda: come mai quegli incontri?

Di quali ‘argomenti’ parlavano i due?

Una foto dalla cena di Di Pietro e Contrada con gli 007 americani

Forse si possono spiegare alla luce di un altro pezzo, pubblicato stavolta dal ‘Corriere della Sera’, e soprattutto dalla incredibile foto che lo correda, la quale parla da sola. In quella foto sono ben visibili, tra gli altri, i volti di Antonio Di Pietro, di Bruno Contrada, di un agente della CIA e di un membro dei nostri Servizi segreti.

Una cena prenatalizia coi fiocchi! E qualche giorno dopo Contrada verrà arrestato con l’accusa di collusione mafiosa, dalla quale riuscirà ad uscire solo dopo un Calvario durato oltre vent’anni (e un risarcimento deciso dalla Corte di Strasburgo).

Il fil rouge che lega questi fitti & vicende ormai è chiaramente leggibile. E non identificabile solo da chi non vuol vedere.

La stagione di Mani Pulite venne eterodiretta dagli Stati Uniti, e come sempre succede in questi casi dal suo braccio operativo, la CIA: del resto già intervenuta in modo che più eclatante non si può (ma regolarmente ‘non visto’ e quindi snobbato dai media) nel caso Moro, che ‘Doveva Morire’ (è il titolo di un altro ‘must’ sempre firmato Imposimato-Provvisionato), grazie al suo inviato speciale Steve Pieczenick.

Bettino Craxi era la vittima ‘sacrificale’ designata: doveva pagare per lo ‘sgarro’ di Sigonella, come dettaglia Armanini.

In questo scenario, anche gli altri due protagonisti del CAF andavano scaricati dagli Usa: Andreotti infatti esce di scena e il ‘cavallo’ di casa nostra ben visto dagli Usa diventa Francesco Cossiga (già ottimo e abbondante per il caso Moro); a Forlani ci pensa il pool, e la sua figura scompare presto dai radar.

E Di Pietro? Gettata la toga ormai scomoda, si tuffa nella politica, fonda la sua ‘Italia dei Valori’(immobiliari, come titolò la Voce), poi da ottimo talent scout ‘scopre’ e valorizza il tandem Casaleggio-Grillo.

Il resto è cronaca.

Di Pietro padre e figlio. In primo piano Annita Zinni

La Voce pubblica per un paio d’anni inchieste al calor bianco firmate dal giornalista RAI Alberico Giostra (autore de ‘Il Tribuno’ dedicato proprio alle imprese dell’ex pm) fino al ‘pezzo fatale’ che decreta la morte della Voce cartacea. Quello sulla maturità di Cristiano Di Pietro, il rampollo appena un po’ favorito nella maturità dalla preside di Sulmona e grande amica di don Tonino nonché rampante in ‘Italia dei Valori’, Annita Zinni.

Per una piccola imprecisione del resto rettificata nel numero seguente, veniamo condannati nel 2014 a 69 mila euro di risarcimento danni, cifra da guinness dei primati in Italia e non solo, nel campo delle diffamazioni a mezzo stampa.

Con il giudice che firmò la nostra condanna a morte, Massimo Marasca, la querelle giudiziaria continua al tribunale di Napoli.

Prossima udienza nella primavera 2024.

 

N.B. Tenete solo presente che quanto scritto anni prima dalla Voce è stato poi ripreso da ‘Report’che con un paio di scoop sancì in un baleno la fine di ‘Italia dei Valori’ e del suo fondatore.

 

P.S. Per evitare un’inondazione di link a seguire, però consentirvi di leggere articoli e inchieste pubblicati dalla Voce sui tanti personaggi citati nel pezzo, vi suggeriamo di procedere come più volte indicato: andate alla casella CERCA in alto a destra della nostra home page (e quindi all’archivio della Voce dal 2015 in poi) e digitate nomi e cognomi dei personaggi che maggiormente vi interessano. Ne potrete ritrovare di tutti i colori. Un solo esempio: Raul Gardini. Non ne abbiamo scritto prima, andate a leggere alcuni pezzi della Voce…

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