DEPISTAGGIO BORSELLINO / LE  RESPONSABILITA’ POLITICHE E ISTITUZIONALI

Cosa nostra ebbe delle convergenze di interessi con ambienti esterni nel decidere l’esecuzione della strage di via d’Amelio. Non agì da sola, ma in sinergia con soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino che hanno avuto un ruolo nella fase ideativa ed esecutiva della strage”.

E’ l’assunto base intorno al quale ruotano le motivazioni della sentenza scritta dai giudici del tribunale di Caltanissetta (a presiedere il collegio giudicante Francesco D’Arrigo) per il processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, appena depositate. “Il depistaggio più grande nella storia della nostra Repubblica”, come è stato definito dagli estensori della sentenza per il processo Borsellino quater.

 

RICOSTRUZIONE STORICA E TUTELA DELLA MEMORIA

Motivazioni, quelle appena rese note, che contribuiscono a portare altri, significativi elementi per la ricostruzione ‘storica’ della tragica strage di via D’Amelio; per conservare la ‘memoria’ di quell’eccidio. E per ribadire che Cosa nostra agì in perfetta sinergia con alti ambienti politici e istituzionali, i veri mandanti della strage che volevano assolutamente eliminare un personaggio ormai ultra scomodo come Paolo Borsellino, il quale  stava per smascherare trame, connection, protagonisti di quella stagione in cui Politica & Mafia andavano d’amore e d’accordo e soprattutto progettavano di realizzare grandi affari insieme, in perfetta sintonia.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel fotomontaggio in alto, la strage di Via D’Amelio

Come del resto emerge a chiare lettere da quel famoso dossier ‘Mafia e Appalti’ ordinato da Giovanni Falcone, elaborato dal Ros dei carabinieri e che ha rappresentato il vero motivo per il tritolo di Capaci prima e di via D’Amelio subito dopo, in rapidissima successione temporale. Altro che ‘Trattativa’!

Perché in  quel dossier c’erano tutti gli elementi economici, il fiume di denari pubblici che rappresentava il propellente per il tandem Mafia-Politica, e proprio seguendo quelle tracce, i nomi di quelle imprese, dei politici di riferimento, si sarebbe scoperchiato il Pentolone dei Grandi Affari tra grandi imprese del Nord e quelle legate a Cosa nostra: sotto la supervisione e con la benedizione di quei politici che avrebbero tratto giganteschi profitti economici da quelle sporche connection.

Falcone e Borsellino lo aveva capito, stavano seguendo “la famosa pista dei soldi” (come soleva dire il primo), e avevano già individuato i business trainanti. In primo luogo quello dell’Alta   Velocità, il famigerato TAV (‘Treno ad Alta Velocità’) che rappresentava una vera manna, l’Eldorado per gli anni a venire.

Come ha denunciato, in perfetta solitudine, il magistrato e poi parlamentare Pds Ferdinando Imposimato in una infuocata relazione di minoranza per la ‘Commissione Antimafia’ nel 1996; come hanno documentato nell’imperdibile ‘Corruzione ad Alta Velocità’ uscito tre anni dopo e firmato dallo stesso Imposimato con un grande giornalista d’inchiesta, Sandro Provvisionato.

E come la ‘Voce’ aveva cominciato a ricostruire fin dal lancio del maxi-progetto ad inizio anni ’90 con una sfilza di articoli e  inchieste al calor bianco, e perfino nel corso di un ‘Costanzo show’ che abbiamo ricordato alcune settimane fa in occasione della morte del celebre anchor man.

 

DENTRO LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA NISSENA 

Ma torniamo alle motivazioni della sentenza di Caltanissetta. Di seguito, ne riportiamo alcuni significativi passaggi, che servono a chiarire il contesto nel quale sono maturate le stragi di Capaci e, soprattutto, di via D’Amelio.

Dalla sentenza emerge con chiarezza che la tesi secondo cui Borsellino sarebbe stato ucciso in risposta all’esito del maxi processo non è credibile, considerando anche “i tempi della strage, obiettivamente distonici rispetto all’interesse di Cosa nostra”.

Il tribunale di Caltanissetta

Secondo le toghe nissene, quindi, “anche senza voler ritenere scontato che si possa parlare di ‘accelerazione’ più o meno repentina, non è aleatorio sostenere che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di Cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni”.

Le anomalie principali della strage di via D’Amelio – secondo le motivazioni – sono rappresentate dalla presenza (riferita dal pentito attendibile Gaspare Spatuzza, grazie al quale è stato finalmente disvelato il taroccamento ‘istituzionale’ del teste base per le prime sentenze, ossia Vincenzo Scarantino) di “una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.

Precisa il Collegio nisseno: “La presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra si spiega solo alla luce dell’appartenenza istituzionale del soggetto, non potendo logicamente spiegarsi altrimenti il fatto di consentire ad un terzo estraneo alla consorteria mafiosa di venire a conoscenza di circostanze così delicate e pregiudizievoli per i soggetti coinvolti come la preparazione dell’autobomba destinata all’uccisione di Paolo Borsellino”.

 

IL GIALLO DELL’AGENDA ROSSA

Passiamo al giallo dell’agenda rossa del giudice trucidato con la sua scorta. Una delle ‘chiavi’ per decodificare la strage, secondo la Corte che su questo punto emette un giudizio molto netto e che non lascia spazio ad equivoci: non fu Cosa nostra a impossessarsene e a farla sparire.

Ecco cosa scrivono: “A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra. Ne discendono due ulteriori, logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.

Eppure, ci sono immagini inoppugnabili che documentano il fatto, ossia in quali mani è finita l’agenda di Borsellino nei tragici momenti successivi alla strage. Quelle del colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli: che proprio per questo è finito sotto processo, ma ne è uscito incredibilmente assolto, candido come un giglio.

Così si legge nelle motivazioni del tribunale di Caltanissetta a proposito dell’agenda sparita per mano, di certo, ‘istituzionale’: “Un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio, certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via D’Amelio”.

Giovanni Arcangioli con la borsa di Paolo Borsellino

E ancora: “Quel che è certo è che la gestione della borsa di Paolo Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile. Nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno ha proceduto al suo sequestro e nonostante da subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico. Solo (se e quando) si potrà stabilire a fondo, e con chiarezza, il ruolo di Giovanni Arcangioli e il ruolo di Arnaldo La Barbera (che riconsegnò la borsa del giudice alla famiglia mesi dopo, ndr) – soprattutto sotto il profilo del come si coniugano tra loro i due interventi sulla borsa – si potrà fare nuova luce sul tema della sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino”.

A parere delle toghe nissene, “sia che l’agenda sia sparita a pochi minuti dall’esplosione, sia che l’agenda sia sparita in un torno di tempo (immediatamente) successivo, tenere un reperto così importante per cinque mesi a decantare su un divano, ha avuto sicuramente un’efficienza causale nello sviamento investigativo delle prime indagini, facendo venir meno l’attenzione sulla borsa e sul suo contenuto”.

 

SERVIZI SEGRETI, POLITICI & TOGHE ECCELLENTI

Passiamo al ruolo di servizi segreti e magistrati nel depistaggio di Stato.

Partiamo dai primi. Nelle motivazioni delle toghe nissene, si legge di “impropria partecipazione del Sisde alle indagini” di cui “erano al corrente in molti: il procuratore Giovanni Tinebra, ma    anche Narracci (che su ordine del prefetto Fausto Gianni, in gran segreto, accompagnò il funzionario Sergio Costa, genero del capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi, da Tinebra presso la Procura Generale di Palermo) e dal Bruno Contrada”. E’ legittimo ritenere – aggiungono – “che il capo della Polizia di Stato e i vertici dei servizi segreti non potessero assumere un’iniziativa così ‘extra-ordinem’ senza un minimo avallo istituzionale che non poteva che provenire dall’organo di vertice politico dell’epoca”.

Ovvio il riferimento al Ministro degli Interni all’epoca dei fatti, Nicola Mancino, il quale, nel corso della sua verbalizzazione ha liquidato la questione con un “non ricordo”, ben poco convincente secondo i giudici di Caltanissetta.

Passiamo all’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco che, mettono nero su bianco nella motivazione, “mortificò la storia professionale di Paolo Borsellino, imbrigliandone le iniziative investigative”. E proseguono: “Si pensi alla circostanza che egli (Giammanco, ndr) aveva impedito a Borsellino di sentire Tommaso Buscetta dopo l’omicidio Lima, e che non gli conferì la delega a indagare su Palermo fino alla mattina del 19 luglio 1992. Inoltre, la sua figura non può non legarsi alla certamente inadeguata protezione di Paolo Borsellino”.

 

ENTRA IN SCENA IL ‘PUPAZZO’ SCARANTINO

Eccoci al ‘pupazzo’ costruito a tavolino, l’uomo al quale ha ruotato l’intero depistaggio, Vincenzo Scarantino. Viene scritto nelle motivazioni: “L’indissolubile intreccio tra verità e menzogna che caratterizza la testimonianza dell’ex falso collaboratore  Vincenzo Scarantino impedisce al Tribunale di ritenere l’attendibilità di Scarantino nelle sue propalazioni eteroaccusatorie, impedendo così di trarre considerazioni a carico in ordine alla responsabilità degli imputati. E’ difficile distinguere quando le lacune narrative siano frutto di iati mnemonici e quando siano espressione di un racconto volutamente caotico e nebuloso”.

Vincenzo Scarantino

La conclusione del lungo excursus sulla figura di Scarantino è, comunque, lapidaria. Si tratta di “un mentitore di professione. E’ un soggetto che mente dal 1994 e che, a distanza di quasi 30 anni, ha deliberatamente deciso di continuare a offrire ricostruzioni arbitrarie, ondivaghe e false”.

Alle quali – la ‘Voce’ lo ha scritto decine di volte – hanno prestato fede ben tre magistrati che lo hanno ‘gestito’: in primo luogo Anna Maria Palma e Carmelo Petralia, ai quali si è poi aggiunto Nino Di Matteo, l’‘icona antimafia’ oggi nel CSM e contro il quale ha avuto sempre espressioni al vetriolo FiammettaBorsellino, la combattiva figlia del magistrato trucidato.

Un ‘teste’, Scarantino, costruito a tavolino dal pool di poliziotti guidati da Arnaldo La Barbera: ma poteva mai agire di sola sua volontà, La Barbera, senza avere alcuna interlocuzione con i tre magistrati? La logica, ovviamente, dice di no.

Afferma la Corte di Caltanissetta, sempre a proposito di Scarantino: “Anche nel procedimento ha prospettato una ricostruzione dei fatti che non può coincidere con la realtà, soprattutto nella misura in cui ha attribuito in toto a La Barbera in primis e ai suoi uomini poi, la paternità di tutta una serie di dichiarazioni accusatorie che altro non potevano essere se non il frutto dei margini di autonomia che per scelta o per necessità gli vennero lasciati”.

Per la verità, nel corso di una verbalizzazione, Scarantinò accusò direttamente i magistrati, in particolare Anna Maria Palma:    potete leggere l’articolo che ne parla cliccando sul link in basso.

Passiamo ad un altro magistrato che si è sempre auto-attribuito un ruolo di grande amico di Borsellino e che in molte circostanze è stato accostato al ‘giallo’ dell’agenda rossa di Paolo. Ci riferiamo all’ex giudice Giuseppe Ayala, che molti ricorderanno come frequente ospite alle puntate del ‘Costanzo show’ negli anni ’90.

Giuseppe Ayala

Su Ayala puntano i riflettori i giudici nisseni nella loro sentenza: “Inspiegabili così tanti cambi di versione”, sottolineano a chiare lettere. “Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato – precisano – appare inspiegabile il numero di mutamenti di versioni rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda. Restano insondabili le ragioni di un numero così elevato di cambi di versione, peraltro su plurime circostanze del narrato”.

E poi sottolineano: “Borsellino si sentì tradito da un soggetto inserito in un contesto istituzionale”. Non pochi vedono in questa figura quella di Giammanco, altri rammentano quel ‘punciutu’ pronunciato da Paolo alla moglie Agnese pochi giorni prima della strage e che parecchi individuano in un vertice delle forze dell’ordine dei carabinieri, il generale Antonio Subranni. Adesso l’ombra di Ayala. Il mistero resta.

 

LA PAROLA A FABRIZIO TRIZZINO

Passiamo ora alle parole del battagliero avvocato Fabrizio Trizzino, il legale della famiglia Borsellino e marito della figlia, Lucia Borsellino.

Ecco cosa ha detto, commentando le motivazioni della sentenza nissena, in un’intervista rilasciata a ‘il Dubbio’.

Questa sentenza è importantissima perché finalmente riconosce il diritto alla verità dei fatti. Quanto accaduto ha segnato la storia recente del nostro Paese, contribuendo ad imprimere una svolta epocale di cui, forse, non tutti hanno ancora piena consapevolezza”.

“Dopo l’omicidio Borsellino possiamo tranquillamente affermare che è nata la seconda repubblica. La data del 19 luglio 1992 è uno spartiacque”.

L’avvocato Fabio Trizzino

“La sentenza dei giudici nisseni ha messo alcuni punti fermi. Il primo è sicuramente che appartenenti alla Polizia di Stato hanno posto in essere un reato gravissimo, quello di calunnia aggravata, depistando fin dall’inizio le indagini per l’identificazione degli assassini del magistrato. Non ci sono più dubbi sul fatto che Mario Bo e Fabrizio Mattei con il loro operato hanno contribuito a ‘vestire il pupo’, ovvero a ‘costruire’ il falso pentito Vincenzo Scarantino. Dalle dichiarazioni di quest’ultimo, il primo processo, il ‘Borsellino Uno’, si concluse il 26 gennaio 1996 con condanne all’ergastolo per soggetti che erano invece innocenti e completamente estranei ai fatti. Parliamo di persone che sono rimaste in carcere per quasi venti anni”.

“La difficoltà non è stata solo determinata dal decorso degli anni che ha attenuato i ricordi, ma soprattutto per l’atteggiamento tenuto in aula dai diversi soggetti coinvolti a vario titolo: coloro che avrebbero potuto dare un contributo alla esatta ricostruzione dei fatti, dall’ultimo dei poliziotti al capo dello SCO, il Servizio centrale operativo della polizia di Stato, hanno posto in essere un atteggiamento reticente. Un atteggiamento che ha ricordato molto da vicino quello delle consorterie mafiose”.

“La mafia si basa sull’omertà e sulla compartimentazione. In questo processo la logica è stata la stessa. Pensate che le dichiarazioni di alcuni poliziotti sono state trasmesse in Procura per verificare una eventuale ipotesi di falso”.

I giudici sono stati coraggiosissimi, non si sono fermati a condannare l’operato dei poliziotti ma anche a censurare quello dei magistrati”.

Il silenzio da parte dei poliziotti in questo processo trova ‘giustificazione’ con il fatto che essi sono stati lasciati soli sul banco degli imputati, dove non vi erano invece i magistrati che hanno condotto le indagini (i sopra citati Palma, Petralia e Di Matteo, ndr) e, almeno sulla carta, avrebbero dovuto coordinare la polizia giudiziaria. C’è stato timore”.

“La motivazione di carriera è provata. Il prefetto Arnaldo La Barbera che coordinava il gruppo d’indagine sugli omicidi di Falcone e Borsellino ebbe una carriera fulminante con promozioni rapidissime, arrivando a ricoprire posti di prestigio”.

Dietro la morte di Borsellino ci sono gruppi di potere con interessi convergenti, penso ai potentati economici. Ci fu una manovra a tenaglia. Eravamo all’inizio di Tangentopoli”.

Per quanto riguarda l’agenda rossa, non l’ha presa la mafia che non sapeva della sua esistenza. I mafiosi sapevano bene cosa Borsellino pensava di loro. L’ha presa chi aveva da temere da qualche possibile annotazione contenuta al suo interno”.

“Lucia Borsellino ed il fratello Manfredi si recarono al Palazzo di Giustizia dopo qualche giorno dall’attentato per andare nell’ufficio del padre a recuperare qualche suo oggetto personale ma trovarono l’ufficio completamente pulito, con la scrivania senza nulla sopra, nemmeno un foglio di carta. Chi è stato? Non si è mai saputo. C’era qualcosa di importante?”

Sulla riapertura di altre indagini, dopo questa sentenza di primo grado, sono fiducioso. Penso, ad esempio, alla rivitalizzazione del dossier ‘Mafia e Appalti’ a cui stavano lavorando i carabinieri del Ros allora comandati dal colonnello Mario Mori”.

Quel dossier che – come la Voce ha ribadito e documentato cento volte – è stato il vero movente delle due stragi.

Comunque Trizzino ha subito precisato: “Non si tratta di riaprire ‘Mafia-appalti’, ma di comprendere se per il provato ed evidente interessamento del dottor Borsellino per quella indagine venne eseguita una strage assolutamente incomprensibile nell’ottica degli interessi generali dell’organizzazione mafiosa”.

La manovra a tenaglia riguarda il fatto che bisognava evitare che da Nord (la procura di Milano) e da Sud (con Paolo Borsellino) si potesse aprire un fronte unico di indagini collegate sulla gestione illecita degli appalti per svelare quella Centrale Unica degli appalti di cui ebbe a parlare Giovanni Falcone già nel 1990”.

Scoperchiando di fatto le dimensioni del finanziamento illecito dei partiti e il livello devastante della corruzione su cui si reggeva l’intero sistema dei partiti della prima repubblica”.

 

P.S. Come al solito, per saperne di più sui tanti personaggi citati, basta andare alla casella CERCA nella colonna in alto a destra della nostra home page, e digitare nome e cognome. Comunque, in basso, vi forniamo già alcuni link.

 

LINK VOCE

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