Un premier al futuro

La declinazione dei verbi fare, agire, decidere, risolvere, concludere nell’armamentario dialettico del presidente del Consiglio è prevista solo nella forma “futuro”, prossimo o remoto che sia. E’ vero uno che ha frequentato la politica leggendo il giornale preferito, ascoltando il telegiornale più vicino alle proprie simpatie non può inventarsi premier di un grande e difficilissimo Paese qual è l’Italia. Lo hanno catapultato a Palazzo Chigi due birbanti matricolati con lo scoperto intento di deporre le armi e scansare i rischi del duello finale sul chi sarà il number one del governo 5Stelle-Lega. La scelta indolore è caduta su Conte, prevedibile esecutore amorfo della politica in gran parte conflittuale dettata dal “Ce l’ho duro” o “piccolo Orbàn” come Giannini ha ribattezzato Salvini su la Repubblica e dall’ “Incompiuto” o “Zedong” (sempre coniato da Gianni”) Di Maio. Di che sorprendersi se il primo ministro alle prese con i microfoni aperti ha esternato solo con il sussidio di note scritte da altri? Allorché i vice ministri Castore e Polluce hanno valutato a buon punto il rodaggio di Conte, hanno osato metterlo al cospetto di un nugolo di attrezzati giornalisti con il compito di confrontarsi con le loro domande e questa volta senza le “pezze d’appoggio” di risposte prefabbricate. Con lodevole sprezzo del pericolo il premier ha subìto il bombardamento senza battere ciglio. Ha seguito alla lettera le indicazioni dei suoi consiglieri e ha coniugato alla perfezione i verbi al futuro. A caso alcune richieste: “Manovra economica”, “La faremo in modo serio e coraggioso”; “La regolamentazione degli appalti?” “Proposta di riforma a Settembre”; “La Tav?” (nemmeno i giornalisti si piegano a usare l’articolo maschile e chiamarlo il Tav, ndr). “Decideremo presto”. “Il gasdotto Tap?” “Saremo vigili, valuteremo tute le istanze….”; “Migranti” “Affronteremo il problema”; “La Rai?” “Valuteremo”; “La Consob?” “Valuteremo”; “Alitalia?” “Ci stiamo lavorando”; “Giustizia?” “Lavoriamo alacremente

Con acume, qualcuno ha titolato la conferenza stampa “il trionfo del nulla” e per innata generosità dissentiamo. Cosa aspettarsi da un improvvisato attore dell’intricata commedia politica del Bel Paese, dal prigioniero di un paio di marpioni assetati di potere? Dunque assoluzione e se il premier lo permette un consiglio: mai più esternare a braccia e meno che mai al cospetto di agguerriti giornalisti. Nell staff presidenziale il “Ce l’ho duro” e “l’Incompiuto” hanno certamente previsto un pennivendolo che scriva gli interventi del primo ministro. “Se ne serva, abbiamo apprezzato più volte la sua bravura di lettore”.

E’ verosimile un’altra versione del flop Conte? L’applicazione del contratto di governo non fa un passo in avanti, impedito dall’idiosincrasia reciproca, grossolanamente mascherata da Lega e 5Stelle con inverosimili dichiarazioni di intesa su tutto che corrispondono a identità di vedute zero. Vuoi vedere, che Conte, sballottolato dai due litiganti seriali, ha voluto certificarlo pubblicamente, per assolvere se stesso e addebitare all’anomala alleanza Di Maio-Salvini, il vuoto di operosità del governo? La reiterazione di verbi al futuro, che rinviano alle calende greche il rispetto degli impegni contrattuali di governo, potrebbe essere testimonianza di totale inadeguatezza dell’esecutivo, ma anche la presa di distanza di Conte stufo di essere manovrato come un burattino? La verifica non tarderà.

Non è politica, è un rumore assordante, uno schiamazzo, un coccodè-chicchirichi di pollaio arroventato dal sole, un brusio ad alto volume: ci sfianca con il decreto dignità, la flat tax, il reddito di cittadinanza, il destino dell’Ilva e dell’Alitalia, i respingimenti dei migranti, lo stop all’accesso gratuito nei musei della prima domenica del mese, il ping-pong di veleni somministrati di qua e di là degli schieramenti contrapposti. Alla lunga è un potente sonnifero che addormenta le coscienze, la rabbia popolare, le dure realtà di un Paese volutamente distratto, marginalmente interessato a fenomeni più che inquietanti.

In Sicilia una banda che definire di malfattori è un complimento, reclutava specialmente giovani in difficoltà economiche o impossibilitati a procurarsi la droga, disposti a farsi spezzare le ossa per simulare i danni provocati da falsi investimenti di auto e chiedere il risarcimento alle compagnie di assicurazione. “Repubblica” racconta la tragica storia di una giovane madre che ha subito due fratture per poter dare un futuro immediato ai suoi bambini. La promessa dei truffatori: subito 800 euro, poi oltre trentamila con la liquidazione della compagnia assicuratrice.

Anche questa è l’Italia, e lo è anche quella dell’Incompiuto Giggino, che sordo alle voci di “dissenso costruttivo” continua a definire se stesso, ma l’insieme di deputati e senatori “onorevoli”, titolo abusato, perché abolito già dal Ventennio. Orecchie otturate anche sul tema delle scorte, che mobilitano migliaia di uomini delle forze dell’ordine in compiti che la storia (stragi, e omicidi di mafia) ha dimostrato inefficaci contro il pericolo di attentati. Il vice presidente del Consiglio, crociato dell’anti spreco di risorse comuni, non ha resistito alla tentazione di aggiungere all’abituale codazzo di ammiratori un paio di carabinieri. Per ragioni campanilistiche (davvero una trovata geniale) ha voluto che fossero di Pomigliano, suo presunto feudo. E anche questa è l’Italia.

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