La mani una sull’’altra degli ‘alleati’, nell’immagine immortalata alla vigilia del voto in Umbria, precedono con palese significato l’esternazione dello sconfitto numero uno del voto, ovvero del ‘capo’, che l’esito disastroso per il Movimento grillino ha degradato a 2, massimo 3 stelle, come gli alberghi di serie B. Quelle mani raccontano diffidenza, la chiusura vicendevole al “volemose bene” alla speranza che la somma Pd-Grillini avrebbe limitato i danni di una sconfitta pronosticata da tutti i sondaggi. Il leader di un qualunque partito, che racimola la miseria del 7 per cento dei voti, sorpassato perfino dalla parafascista Meloni e prossimo alla soglia del fallimento al pari di Forza Italia, cinque minuti dopo l’ufficialità del voto si sarebbe presentato dimissionario in conferenza stampa. L’imberbe Di Maio, a conferma della sua conclamata spocchia di improvvisato politicante, non solo si è avvitato più saldamente alla poltrona di ministro e capo dei grullini, ma con disprezzo della verità ha imputato la sconfitta elettorale al sodalizio con il Pd.
I dem di Zingarettti non è che escano dalla competizione umbra con le ossa tutte sane, ma il loro 22 percento è più o meno quanto l’Italia gli riconosce dopo la mazzata subita dal partito di Renzi. Aallora il proclama di Di Maio “Mai più al voto con il Pd” risulta falso come la stecca di un cantante stonato e per due motivi. Senza l’accordo di governo con Zingaretti i 5Stelle sarebbero rimasti con il cerino acceso tra le dita, il consenso degli italiani ridotto al lumicino e il rischio di default in caso di elezioni anticipate. Ma poi, Di Maio e i suoi di quanto s’illudono che sarebbe aumentato il 7percento con una lista senza l’apparentamento con i dem? Se c’è chi deve pentirsi dell’alleanza in Umbria è semmai il Pd, abbinato a un partito che da Roma in su non ha sfondato neppure quando era all’apice dei consensi. In margine all’evento che ha consegnato la regione storicamente rossa al razzi-fascismo dell’osceno binomio Salvini-Meloni, salta agli occhi la furbizia di Renzi che ha brigato per il ‘pronti, via’ del governo giallorosso, ha messo in cassa la presenza di suoi ministri nell’esecutivo, ha operato l’ennesima scissione nella sinistra, ha boicottato e condannato a posteriori l’accordo elettorale Pd-5Stelle in Umbria. Si intuisce che oltre a Renzi gongolano per l’esito del voto i fuoriusciti del Pd Calenda e Giachetti, neo antagonisti del Pd.
Ufficialmente gli sconfitti tendono a spegnere l’euforia di Salvini e compagni, ma non convincono. Gli argomenti: “Si tratta di 700mila elettori, poca roba; nessuna conseguenza sul governo, tiriamo dritto”. Portavoce è il premier Conte e si spiega perché. L’avvocato prestato alla politica intuisce che in caso di rimpasto o peggio di nuove elezioni, non avrebbe una terza chance del terzo mandato a primo ministro, ruolo insidiato già negli ultimi tempi dalla insofferenza di Di Maio, nettamente scavalcato nei sondaggi sul gradimento dei politici.
Il capo dei grillini non recita il mea culpa, anzi si assolve, imputa al movimento di aver deviato dallo status di partenza e lo invita a ripartire da zero, con umiltà. Basterà per tenere a bada i fermenti interni, che ancor prima del voto in Umbria, era sostanziato dall’accusa al ‘capo’ di gestione personalistica e dall’ostilità all’accordo con il Pd?
In casa dem, si evidenzieranno con sbocchi clamorosi le critiche al doppio sodalizio con i 5Stelle, all’accordo di governo imperfetto e alla miope improvvisazione delle alleanze locali prive di un progetto organico? Ne trarrà vantaggio la neonata “Italia Viva”?
I soci dell’alleanza di governo si affrettano a smentire le ricadute del voto in Umbria sulla politica nazionale. L’intento, palese, è di proseguire nel percorso intrapreso per sventare la iattura del sovranismo di Salvini e dei suoi affiliati di estrema destra. Se il governo giallorosso non rischia un the end precoce non vuol dire però che l’alleanza è salda. Al contrario, a prescindere dalla debacle del voto in Umbria, è manifesto il grumo di incompatibilità che ha reso impervio l’avvio del sodalizio nato dall’apertura della crisi provocata da Salvini.
Sullo sfondo si presenta un nuovo episodio di contrapposizione interno ai 5Stelle. Di Maio dichiara la morte delle liste uniche con i Pd, a cominciare dalle regionali del 2020 in Emilia, Grillo e Fico dissentono e tifano per la prosecuzione dell’alleanza. Il guastatore Di Battista, sostenuto dall’ala destra del Movimento, torna in campo e la boccia. Zingaretti, non esplicitamente, ma in termini non equivocabili, addebita l’insuccesso in Umbria alla cattiva gestione di Renzi del partito e alla sua scissione. Zanda, Pd, ironico sulla Caporetto dei 5Stelle: “Colpa di Di Maio se perde alleandosi con Salvini o con il Pd”. Al monito di Grillo, Conte e Fico perché vada avanti l’alleanza con il Pd, il capo politico pentastellato (capo ancora per quanto?) replica di temere che la Meloni gli ‘rubi’ voti da destra voti e si oppone allo sterzare del Movimento a sinistra. Nega ogni ritorno al gialloverde, il sospetto è che sia una bugia. Nell’ombra, i senatori ‘dissidenti’ sembrano pronti a ottenere che Di Maio scelga: o ministro o capo dei 5Stelle.
Sorprende qualcuno se il magma del politichese è ostico specialmente per i giovani, se lo sconcerto li spinge a riconoscersi nei dogmi della destra, se la scalata dei neofascisti al consenso li cattura con le suggestioni dell’uomo, o meglio, nel caso specifico della donna politicamente forzuta, aggressiva, della Meloni? La prospettiva del voto a sedici anni pone agli anti Salvini-Meloni l’impegno supplementare di coinvolgere i prossimi neo elettori, di contrastare il loro disinteresse per la politica, postulato largamente diffuso per deficit di informazione. La destra sovranista, finanziata da Bannon, lo e ha rivelato Ranucci nelle ultime due puntate di ‘Report’, apre scuole di partito con l’intento di far sterzare a destra l’Italia e l’Europa. Sul fronte opposto ha chiuso da tempo il corrispettivo di sinistra delle ‘Frattocchie’ e anche nel Pd si accede al mestiere della politica per grazia ricevuta estraneo al decisivo faccia a faccia, sul campo, con i problemi sociali e i bisogni dei cittadini.
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