UN CIMITERO DI BAMBINI

Dal conflitto arabo israeliano è scaturito sinora solo un cimitero di bambini. Ma dobbiamo anche ricordare che, in fondo, è proprio questo il destino di tutte le guerre. Uccidono prima la parte di popolazione più fragile e indifesa dei popoli che si combattono, ossia bambini, anziani, disabili e, poi, i tanti giovani soldati che vanno a combattere ubriacati dalla propaganda bellica, spesso senza capirne neanche il perché. Non sanno chi ha interesse a mandarli a morire e non possono realizzare il senso di quella che sarà solo una mattanza.

In Israele i morti hanno già superato la soglia di 30.000 e la strage non si è ancora fermata. Le vittime sono più di quelle previste dai più cinici strateghi da poltrona all’inizio del conflitto. È stata già sterminata un’intera generazione e, soprattutto, i sopravvissuti, quelli palestinesi che cresceranno nei campi profughi, diventeranno carne da macello, figli di un’infinita guerra. Il loro odio alimenterà, in futuro, un nuovo ciclo di terrorismo. È anche per questo motivo che qualcuno teorizza, cinicamente, che bisogna ucciderli tutti ora, in questa fase della guerra. Ora che si può fare finché dura la battaglia in corso, proprio perché lo sguardo del mondo civile è rivolto altrove e ancora una volta assiste indifferente alla strage in atto, senza voler prendere posizione anzi fingendo di credere alle motivazioni diffuse dai portavoce degli eserciti in lotta. Nel frattempo, i mass media lavorano senza sosta per orientare l’opinione pubblica dei paesi occidentali a favore della guerra, così come sta continuando a fare gran parte della classe politica occidentale e mediorientale, e come stanno facendo frange estremiste del clero che, impudicamente, incitano alla “guerra santa”. Proprio come fa in Russia il patriarca ortodosso Kirill, che incita a continuare l’altra sanguinosa guerra di questo periodo storico, quella che si sta combattendo in Ucraina. Papa Francesco è rimasto il solo che continua ad invocare una tregua … a qualunque costo. Ha chiesto più volte ai potenti della terra la fine immediata del conflitto e l’avvio di trattative di pace, ha parlato persino del “coraggio della bandiera bianca”. Le trattative di pace sono per Francesco sempre possibili, soprattutto rinunciando alla parte non esigibile delle proprie pretese, senza vivere quelle rinunce come resa umiliante. È questo il momento di sedersi attorno ad un tavolo e parlare di pace ripartendo dall’unica ipotesi praticabile, quella di accordarsi sull’ipotesi dei due Stati per i due popoli. La stessa proposta che fu accettata da due grandi leaders già trenta anni fa e costò la vita a Rabin.

Ora è il momento di riaprire quella trattativa con intelligenza e senza pregiudizi, magari anche accettando senza remore la presenza di garanti internazionali che possano facilitare i colloqui e che si rendano disponibili anche a porsi poi come forze di interposizione ai confini che si riusciranno a concordare. La stessa trattativa si potrebbe poi utilizzare anche per l’altro conflitto in atto, quello russo-ucraino. Bisognerà in questo caso, ridefinire e capire tutte le argomentazioni sul tappeto per intavolare, con tre anni di ritardo, un tavolo di pace che sia credibile. Ma chi potrebbe avere una autorevolezza per avviare tale iniziativa?

  • Certamente non lo Stato di Israele, che ha in Netanyahu un leader poco credibile che non gode né della fiducia di tutto il suo popolo né di quella dei suoi alleati, figurarsi poi di quella dei suoi avversari. È un capo espressione di una minoranza di coloni militarizzati e molto aggressivi, di cui è praticamente ostaggio.
  • I leaders palestinesi, dall’altro canto, non sono stati capaci di rinnovarsi per sostituire degnamente Yasser Arafat, che rimane ad oggi l’unico capo palestinese che, con Yatzhk Rabin, era riuscito a firmare l’accordo di pace condiviso, quello di Oslo del 1993.

 “… a Gerusalemme, speranza e umanità stanno morendo. Israele sta diventando un cimitero di bambini e il cimitero cresce di minuto in minuto, come un regno sotterraneo che cresce sotto i nostri piedi e trasforma in un deserto tutto quanto ci circonda. È il regno dove abita la mia figlioletta insieme al suo assassino palestinese, il cui sangue è frammisto a quello di lei sulle pietre di Gerusalemme, divenute indifferenti al sangue. Lì giacciono entrambi con innumerevoli altri bambini, tutti ingannati. L’assassino della mia figlioletta è stato ingannato perché il suo gesto omicida e il suo suicidio non hanno cambiato alcunché, non hanno posto fine alla crudele occupazione di Israele, non lo hanno fatto andare in paradiso e quanti gli avevano promesso che il suo gesto avrebbe avuto un significato vanno avanti come se lui non fosse mai esistito”. Sono queste le parole di una parte del discorso che Nurit Peled-Elhanan, una docente dell’Università ebrea di Gerusalemme, ha tenuto in occasione del conferimento del “Premio Sacharov”, attribuitole ex aequo allo scrittore palestinese Izzat Ghazzawi. Lei aveva perso la figlioletta Smadar di 13 anni, vittima di un attentatore suicida; lui il figlio Ramy di 16 anni, ucciso dalla polizia di Tel Aviv. I messaggi di entrambi hanno commosso l’europarlamento, perché hanno certificato l’ingiustizia della guerra in atto e i motivi alla sua base. Motivi che si autoalimentano in una spirale assurda che continua ad autoriprodursi.

Eppure, basterebbe veramente poco per trovare i motivi della pace e vedere in questi motivi la forza e il “coraggio” per perseguirla. Si tratta di smetterla con una guerra che non potrà mai avere un vincitore, perché entrambi i popoli hanno una parte di ragione. Sono tutte valide, infatti, le argomentazioni che spingono entrambi i popoli a continuare la lotta, ma c’è un grande motivo per cercare la pace, quello del diritto di tutti di “vivere sulla stessa terra”.

La terra del pianeta, infatti, è la stessa terra che appartiene a tutta l’umanità e non si può tramandare a un solo popolo, perché è degli uomini che la abitano.

 

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