di Valeria Poletti
Per quanto la cosiddetta “opinione pubblica” si sia assuefatta all’idea che il Paese sia attore sempre più direttamente coinvolto nella guerra in Ucraina e che il conflitto opponga in realtà la NATO alla Russia, non c’è percezione comune di quanto l’Italia sia compromessa negli eventi bellici.
Nello scenario di una guerra di lunga durata che minaccia di espandersi sul territorio europeo, l’Italia ha una posizione strategica nel Mediterraneo ed è deputata a ricoprire un ruolo di primaria importanza: oltre al grandissimo numero di basi militari USA e NATO, il nostro Paese ospita sul suo territorio alcuni rilevanti centri di comando operativo e di intelligence.
Inoltre, oggi un militare italiano su tre impegnato nelle missioni internazionali all’estero appartiene a forze schierate nell’Europa orientale, in Lituania, Ungheria, in Bulgaria (dove il comando del Battaglione di pronto intervento della NATO è a guida italiana). Il nostro Paese è coinvolto in maniera sempre più diretta nel conflitto in corso in Ucraina.
Cacciabombardieri italiani sono allocati in Romania a Costanza sul Mar Nero e la nostra marina militare è presente nel Mediterraneo allargato, in particolare sul fronte orientale.
Da prima del 24 febbraio dalle base di Sigonella decollano pattugliatori della Marina Militare degli Stati Uniti, droni USA e NATO, pattugliatori dell’aeronautica Militare italiana che svolgono attività di monitoraggio e di intelligence fornendo informazioni strategiche per le operazioni di attacco delle forze armate ucraine.
Da Pisa e da Pratica di Mare (provincia di Roma) partono gli aerei cisterna che riforniscono anche i bombardieri strategici B52 e i caccia di US Air Force; la scorta e la protezione aerea di questi velivoli è stata fatta dai cacciabombardieri F-35 dell’Aeronautica militare italiana partiti dalla base di Amendola (Foggia).
Ancora da Pratica di Mare partono gli aerei spia Gulfstream G550, di produzione statunitense-israeliana, che abbiamo acquistato e che svolgono un ruolo di intelligence determinante.
Si prospetta l’invio di batterie Samp-T, di produzione italo-francese. Si tratta di sistemi d’arma che richiedono tempi per formazione e addestramento del personale preposto al loro uso fino a sei mesi: si prospetta, dunque, l’invio di tecnici delle forze armate italiane in Ucraina o l’ospitalità – che già ha luogo – nelle caserme e nei centri italiani di militari ucraini, un fatto che costituisce un passo ulteriore e ancora più grave nella compartecipazione italiana alla guerra.
Il nostro Paese sarà, inoltre, tra i protagonisti dello sviluppo di programmi ad altissimo contenuto tecnologico per l’industria militare, un piano in ambito NATO che coinvolgerà non soltanto l’apparato produttivo delle maggiori imprese del settore, ma anche le nostre università.
Gli italiani comuni, lavoratori e cittadini, saranno chiamati a pagare le spese vive di questa guerra attraverso la compressione della spesa sociale e l’aumento dell’impegno economico statale finanziato dalla tassazione, ma saranno anche penalizzati, nel quotidiano, dalla ristrutturazione del tessuto produttivo, dell’organizzazione del lavoro e della gerarchia di accesso ai consumi e al benessere che l’economia di guerra impone.
La retorica dell’“economia di guerra”, una doppia bugia
Che la guerra abbia portato ad una generale contrazione del potere di acquisto dovuto all’ulteriore aumento dei costi energetici e al conseguente balzo dei prezzi al consumo di molti generi di merci – in primis i beni agricoli – è un dato di fatto sotto gli occhi di tutti. Così come è consapevolezza comune il fatto che l’incremento delle spese militari sottrae risorse per la spesa pubblica, la sanità, la cura dell’ambiente. Così come è percezione comune che l’impoverimento sociale che ne deriva sta diventando una condizione stabile, tanto che un penoso senso di impotenza pervade i singoli quanto le associazioni che rappresentano o raggruppano lavoratori e cittadini. nonostante l’istintivo rigetto, largamente condiviso, al nostro coinvolgimento nella guerra, non si è prodotto un movimento di opposizione alle operazioni di concreta adesione del nostro Paese alla campagna bellica.
Non risulta, invece, chiaro come la deviazione delle risorse per consumi e investimenti civili verso consumi e investimenti di guerra, sia un passo verso cambiamenti strutturali del sistema economico e politico.
Il sostanziale fallimento della globalizzazione a egemonia statunitense (l’unipolarismo) nell’assicurare il predominio finanziario e politico degli Stati Uniti ha prodotto una contrapposizione tra blocchi economicamente e strategicamente rivali forzati a mobilitare tutte le proprie risorse ristrutturando la gestione delle proprie economie per affrontare la competizione.
A seguito della crisi economica conseguente al Covid, la Commissione Europea ha messo a disposizione un fondo di circa 800 miliardi di euro come supporto agli investimenti e alle riforme realizzate dagli stati membri per rilanciare la crescita. Un piano che vale circa 222 miliardi per l’Italia[1]. Di debiti a carico dei cittadini italiani, debiti che dovranno essere restituiti, seppure in un lungo arco di tempo.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il documento con il quale il Governo italiano ridistribuisce le risorse finanziarie messe a disposizione dalla Commissione tra i vari settori dell’economia, prevede di ripartire l’ammontare in questo modo: digitale 25% (49,3mld), transizione verde 37,5% (59,5mld), infrastrutture 25% (31mld), istruzione 30,8% (31mld), salute 18,8mld, inclusione sociale 18,8% (19,8mld). Il digitale e la transazione ecologica, da sole, assorbono oltre il 54% dell’importo complessivo.
Una scelta molto lontana dalle esigenze di cittadini e lavoratori già penalizzati dal decadimento dei servizi sociali, dalla precarizzazione e dal peggioramento delle condizioni di lavoro.
Una scelta di priorità condivisa dai Paesi europei. Perché? Perché sono i due comparti che promettono di rilanciare l’economia italiana ed europea permettendole di fronteggiare la competizione a scala mondiale, cioè di investire fondi pubblici in tecnologia per rivaleggiare con la concorrenza e ottenere un consistente ritorno in profitti privati [2].
Sebbene la ricerca tecnologica nel settore degli armamenti abbia ricadute sul progresso tecnico e scientifico complessivo di un paese, l’accento è, casomai, posto sulla ricerca di realizzazioni dual-use (di impiego sia militare che civile) che non possono essere considerati motori di miglioramento sul piano sociale, ma fanno pagare parte del costo militare ai consumatori.
Non c’è dubbio che Leonardo – maxi-impresa operante nel settore dell’aerospaziale, della difesa e della sicurezza e partecipata al 30% dal ministero del Tesoro e che, presente nei banchi del ministero della Difesa dirige di fatto la nostra politica estera – si sia aggiudicata bandi miliardari per la ricerca e l’innovazione[3]. Come riporta il sito di Quifinanza, così si esprimeva, nel dicembre 2021, il suo direttore generale Lucio Valerio Cioffi: “L’ambizione nazionale (…) è quella di sviluppare un vero e proprio modello innovativo di collaborazione tra Difesa e industria che possa rappresentare un punto di riferimento per i programmi futuri. In una visione sistemica, le aree tecnologiche spaziano dall’aeronautica all’elettronica, dal cyber spazio alla gestione di potenza, facendo leva sull’intelligenza artificiale, sul big data analytics, sull’informatica quantistica, sul digital twin, sulla cyber sicurezza e sull’integrazione tra piattaforme, con o senza pilota”[4]. Nel 2022, anno di guerra, Leonardo ha registrato un risultato netto in crescita del 58,5% a 932 milioni.
Il nostro Paese sarà, inoltre, tra i protagonisti dello sviluppo di programmi ad altissimo contenuto tecnologico per l’industria militare, un piano del 2021 in ambito NATO che coinvolgerà non soltanto l’apparato produttivo delle maggiori imprese del settore, ma anche le nostre università[5].
La strada verso la guerra era aperta e la scelta di sacrificare il benessere sociale alla sfrenata competizione tra capitalismi nazionali anche.
Una bugia: tutti i media ci raccontano che le difficoltà economiche che ci troviamo a fronteggiare derivano dalle condizioni create dalla guerra in Ucraina, che all’alto costo dell’energia e alle sue conseguenze si può far fronte solamente sostenendo la politica di aggressiva concorrenza tra Stati, che è necessario trincerare le frontiere contro l’”invasione” dei migranti. Che la prosperità e la pace sono un sogno che non possiamo permetterci. Si comincia a parlare di economia di guerra. Ma quella che ci viene imposta non è “economia di guerra”, è un’economia per fare la guerra.
Un’altra bugia: siamo chiamati a sostenere un fronte bellico attivando misure militari che, soprattutto se integrate nella politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), dovrebbero tutelare la nostra “sicurezza”. Come dobbiamo interpretare questa parola ce lo spiega il Segretario generale del Consiglio dell’Unione Europea: “… L’UE migliorerà la sua autonomia strategica e la sua capacità di cooperare con i partner allo scopo di salvaguardare i suoi valori e interessi. Tutto ciò intensificherà altresì i nostri sforzi collettivi, in particolare anche nel contesto di un efficace multilateralismo e delle relazioni transatlantiche, oltre a rafforzare il contributo europeo a un ordine mondiale fondato su regole atlantiche”[6]. Difendere “valori e interessi” dell’ordine mondiale euro-atlantico non significa tutelare la sicurezza dei cittadini, quella che, nel senso comune, si riferisce ai diritti del lavoro, alla salute, al benessere sociale, alla sostenibilità ambientale, alla pace.
Questa “sicurezza”, nel quadro della attuale guerra in Europa, attiene piuttosto all’impegno a proseguire il coinvolgimento in una guerra tra blocchi imperialistici con interessi confliggenti, destinata a perdurare allargandosi. Espone le popolazioni europee alla barbarie.
Questa idea di “sicurezza” ci viene giustificata come necessaria a fronte di uno stato di emergenza causato dalla guerra e dalla instabilità dell’”ordine mondiale”: sfruttando una paura artatamente generata a furia di propaganda, si contiene il dissenso accelerando il processo di logoramento dello stato di diritto e di progressiva cancellazione della seppur formale democrazia.
La guerra come attività economica che comporta costi e ricavi
L’adeguare l’economia e la politica economica alle necessità della guerra non impone solamente di rendere disponibili risorse per gli armamenti e per aumentare l’efficienza degli eserciti, ma richiede di riorganizzare la produzione privilegiando le imprese competitive sul mercato dei sistemi d’arma, dell’innovazione tecnologica del comparto militare-industriale.
Si tratta di investire capitali enormi, capitali troppo ingenti per essere mobilitati dall’industria privata e dunque erogati dallo Stato alle sue imprese partecipate (come Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri) e, attraverso queste, distribuite anche ad una filiera di imprese private di settori tecnologicamente avanzati alle quali viene garantito un mercato ed alti profitti tanto su quello interno quanto su quello estero.
Si tratta di trasferire ricchezza pubblica ai privati privilegiando i settori ad alto utilizzo di tecnologia e basso impiego di manodopera, aumentando la disoccupazione e penalizzando la produzione per il consumo di massa. Una produzione, questa, destinata ad essere coperta dalle economie della periferia del mondo con basso costo del lavoro, elevata capacità di estrazione di materie prime, inquinamento e vessazione sociale.
Si tratta di finanziare con denaro pubblico la ricerca bellica nelle università, sottraendo fondi alla ricerca di base e a quella indirizzata ad impieghi civili o alla salvaguardia dell’ambiente.
Il fatto che lo Stato diventi il maggior investitore nella tecnologia di produzione – privilegiando il settore difesa e sicurezza – implica che orienti tutto il processo produttivo verso un modello di sviluppo basato sulla scarsità, a partire dal maggiore costo di importazione delle materie prime (cominciando dall’approvvigionamento a prezzo superiore di petrolio e gas dagli “alleati” Stati Uniti, a finire con l’impossibilità di acquistare da Paesi “nemici”), sulla contrazione degli investimenti pubblici in servizi sociali con conseguente incremento della loro privatizzazione, sulla socializzazione delle perdite di impresa risultanti in una riduzione generalizzata del costo del lavoro.
Indipendentemente da quanto già sia di per sé ingiusto, ineguale e anti-popolare il modello di sviluppo fondato sullo sfruttamento del lavoro, delle risorse e della manodopera dei Paesi della periferia del mondo e del saccheggio delle ricchezze naturali, realizzando questa ristrutturazione capitalistica non si fa che peggiorare le condizioni di vita sul pianeta.
I costi di una simile riorganizzazione dell’economia globale e locale gravano interamente sulle classi meno abbienti e sulla classe media anche in Occidente: deindustrializzazione, disinvestimenti in favore della speculazione finanziaria, inflazione, aumento del debito pubblico sono fattori che inducono in tempi brevi un peggioramento sensibile delle condizioni di vita per una parte consistente della società.
Pagare il riscatto ai pirati
“Anche per il prossimo anno [2023] continua la tendenza di decisa crescita per la spesa militare italiana. (…): il nuovo incremento complessivo è di oltre 800milioni di euro. (…) Si passa infatti dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5miliardi stimati per il prossimo anno”[7].
“L’obiettivo del 2% del Pil da destinare alle spese per la difesa entro il 2024 (…) fa parte di un impegno assunto dall’Italia, insieme agli Stati membri della Nato, in un vertice a Newport (Galles) nel 2014, che prevede altri due punti: assicurare il 20% delle spese per la difesa all’investimento e contribuire alle missioni, alle operazioni e alle altre attività nel contesto dell’Alleanza atlantica. Impegni ribaditi a Varsavia nel 2016 con il cosiddetto Defence investment pledge (…) Per quanto riguarda, invece, la percentuale relativa alle spese militari destinate agli investimenti (…), i dati italiani sono coerenti con le linee guida Nato del 20%: il nostro Paese si attesta a una percentuale pari al 21,8%”[8].
Fonti NATO informano che ciascun italiano, nel 2022, ha speso 498 dollari di contribuzione al bilancio dell’Alleanza[9]. Sempre per difendere i “nostri” “valori e interessi”? O, come commenta Sergio Fabbrini su il Sole 24ore del febbraio 2023, per “riportare l’America in Europa”[10]?
Perché la NATO, braccio armato degli Stati Uniti, oltre alla guerra in Europa sta combattendo una guerra contro l’Europa. Il rilancio dell’economia americana – cioè dei suoi piloni delle fondamenta, il comparto militare industriale, quello dell’energia e l’egemonia del dollaro – avviene a spese degli europei. Staccata politicamente ed economicamente dalla Russia, l’Unione Europea è costretta ad importare il gas liquefatto americano a prezzi esorbitanti e con contratti pluriennali vincolanti che consentiranno a Washington di investire capitali ingenti nel settore, ma, soprattutto, la politica degli “interessi nazionali” promette di spaccare l’Unione riducendone drasticamente l’importanza economica e incrementando conflitti interni magari combattuti con le armi sulle terre e con il sangue degli africani.
NATO ed Unione Europea non sono blocchi monolitici, hanno contraddizioni e conflitti al loro interno e diverse visioni tanto sul piano geostrategico quanto su quello della affermazione e difesa degli “interessi nazionali”. I grandi gruppi transnazionali, quelli del comparto energetico, quelli dei complessi militari-industriali dei diversi Paesi influiscono sulle relazioni interne all’Unione e sulla compattezza dell’Alleanza. Un’Europa debole e divisa è certamente un obiettivo raggiunto dagli Stati Uniti e rafforza la dipendenza dalla “protezione” atlantica.
Dopo la ingloriosa “fuga da Kabul”, diverse cancellerie europee avevano accusato gli USA di aver determinano situazioni e assunto unilateralmente decisioni che avevano coinvolto direttamente i Paesi europei per poi procedere incuranti delle difficoltà nelle quali avevano lasciato gli alleati. Una volta di più, nel caso della guerra in Ucraina, mentre la NATO e la UE dichiarano formalmente di essere per necessità e per scelta complementari, l’Europa rinuncia a far pesare la rilevanza del suo ruolo e l’esistenza al suo interno di visioni geostrategiche differenti da quelle del Pentagono e del capitalismo internazionale con base negli Stati Uniti e si rivela subalterna alla potenza egemone facendone proprie le narrazioni e gli obiettivi.
Parallelamente all’evoluzione di questo asimmetrico partenariato, il Parlamento europeo si è progressivamente appiattito sulle posizioni statunitensi e disciplinato ai programmi NATO: anche prima dell’invasione russa dell’Ucraina, nel 2016 [Varsavia, 8 luglio] e nel 2018 [Bruxelles, 10 luglio], la UE aveva firmato con l’Alleanza due dichiarazioni congiunte nelle quali si sottoscriveva la condivisione di obiettivi strategici quali il contrasto alle “minacce ibride”, il rafforzamento della cooperazione marittima (per esempio l’operazione Sea Guardian a fianco della Missione Irini nel Mediterraneo), il raggiungimento della capacità di rapido intervento militare.
Risulta chiaro come per “minacce ibride” si possa intendere qualunque azione (inclusi i flussi migratori) che si ritenga pregiudizievole della sicurezza dell’Occidente o dei suoi “valori” di “democrazia e sviluppo”, azione portata da qualunque attore esterno o interno ai confini euro-atlantici.
Non c’è più una NATO de iure (di diritto) cui aderiscono un certo numero di Paesi, ma una NATO de facto che si espande ed è pronta ad intervenire in tutti i conflitti esistenti in qualunque area del pianeta.
Nel giugno del 2022, il Consiglio Europeo ha approvato la cosiddetta “Bussola Strategica”, un piano d’azione per una politica di sicurezza e difesa dell’Unione europea, che prevede, tra l’altro, che le forze messe a disposizione da ciascuno Stato possano essere impiegate anche in contesti ONU e NATO. Bisogna ricordare che già nel 2003 il Berlin Plus Agreement consentiva alla UE di accedere alle capacità di pianificazione e comando della NATO e di utilizzare i mezzi e le capacità collettive dell’Alleanza per condurre proprie missioni. Nel medesimo periodo del 2022, è stata redatta una dichiarazione congiunta USA-NATO mentre quest’ultima licenziava il testo del Nuovo Concetto Strategico.
Facendo riferimento a questi due precedenti documenti, il 10 gennaio 2023 è stata redatta una nuova relazione congiunta che, mentre assicura l’impegno a confrontare la minaccia costituita dalla Russia e la “pericolosa competitività” cinese, ribadisce che la NATO rimane il fondamento della difesa collettiva. Una affermazione che non lascia dubbi sulla gerarchia dei ruoli e sulla subordinazione degli Stati europei al principale decisore delle politiche belliche.
Dal vertice della piramide, la NATO ci ha trascinato in avventure belliche facendoci complici delle aggressioni alla Jugoslavia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia: sempre per i “nostri” “valori e interessi”? La partecipazione italiana è stata garantita da tutti i nostri governi, così come è ritenuto naturale che sia per quanto riguarda l’Ucraina e per i conflitti che da questa guerra sortiranno. La NATO è alleanza o subalternità?
Per far trionfare l’Occidente
Una maledizione firmata il 4 aprile 1949 i cui scopi furono ben espressi dall’allora presidente Truman in una conversazione con vertici politico-militari degli Stati Uniti e i ministri degli Esteri dei paesi dell’Alleanza Atlantica: “l’accettazione del mio discorso comporta inoltre il sacrificio di alcuni tradizionali obiettivi economici e di sicurezza; ciò potrebbe rendere l’accettazione non particolarmente auspicabile da parte vostra. Ma, nell’odierno stato di crisi che caratterizza la nostra era, ritengo che grandi problemi richiedono grandi decisioni e che la prioritaria necessità di fermare l’URSS ci costringa a sacrificare quelli che di fatto sono obiettivi secondari al crescente bisogno di sviluppare una politica fruttuosa, capace in primo luogo di garantire la nostra sopravvivenza e secondariamente di far trionfare l’Occidente”[11]. Straordinariamente attuale? Basta sostituire URSS con Russia. Il nemico non è più il comunismo, ma l’aspirazione delle classi dirigenti e delle oligarchie post-sovietiche al multipolarismo[12], naturalmente contrario ai nostri “valori”!
Truman continuava: “La nostra opinione è che al problema esistano solo due soluzioni. La prima consisterebbe nel battere i sovietici con le loro stesse armi – un vasto programma di riarmo e una spietata soppressione del comunismo nei nostri paesi. Tale soluzione è tuttavia impraticabile negli Stati democratici. Riguardo al primo punto infatti è assai improbabile che il governo degli Stati Uniti o della maggioranza dei vostri paesi possa riuscire a far accettare di buon grado un programma di riarmo ai propri popoli. (…) Esiste tuttavia un altro tipo di politica, più consono alle nostre capacità (…)”[13]. Già, per esempio, all’attuale stato delle cose, gettare nel combattimento diretto quei Paesi le cui popolazioni, determinate ad accedere ai “privilegiati” mercati caldi dell’Europa occidentale, sono meno disavvezze alla guerra finanziandoli e armandoli con i soldi dei recalcitranti. Dopo l’Ucraina, le piccole nazioni del Caucaso settentrionale, i Paesi dei Balcani occidentali e la Polonia sono pronti all’avventura della guerra in Europa.
Ma, come scrive Lucio Caracciolo sulle pagine di Limes, “prima o poi l’invio periodico e limitato di armi occidentali ai combattenti ucraini non basterà più. Bisognerà considerare l’invio di nostre truppe in Ucraina”[14]. Il costo della guerra potrebbe non essere più solamente economico, politico e sociale.
Senza contare che tanto gli Stati Uniti quanto la Russia hanno recentemente puntualizzato che considerano superata la rinuncia al “first strike”, cioè ad usare per primi l’atomica[15]. Bisogna anche aggiungere che, in ambito NATO, anche Gran Bretagna e Francia sono potenze nucleari e che l’Ucraina è in possesso delle tecnologie nucleari create in epoca sovietica. E, soprattutto, c’è da tenere nella giusta considerazione il fatto che in Italia, a Ghedi ed Aviano, sono stoccate almeno 70 testate nucleari: la base militare di Ghedi ospita atomiche americane pronte a essere aviotrasportate dalla nostra Aeronautica Militare, ad Aviano ci sono aerei statunitensi attrezzati per il loro trasporto e lancio. Questo per quanto riguarda quelle che vengono definite atomiche strategiche, il possesso delle quali, appunto, dovrebbe scoraggiarne l’utilizzo da parte delle grandi potenze confliggenti in quanto progettate per il trasporto e lancio con voli intercontinentali.
Ma sempre più frequentemente i media parlano del possibile utilizzo delle cosiddette “atomiche tattiche” – peraltro escluse dai trattati – realizzate per essere fatte esplodere a distanze più brevi, inferiori ai 500km, e trasportate da vettori come aerei (a breve, forse, anche da droni), navi o mezzi terrestri. La loro potenza varia da frazioni di 1 chilotone a circa 50 chilotoni mentre quelle strategiche possono avere una carica di oltre un megatone (la bomba sganciata su Hiroshima aveva una potenza di 15 chilotoni). Va da sé che il fatto che se ne parli ha l’obiettivo di preparare l’opinione pubblica europea al loro probabile utilizzo, cioè ad abituare gli “ipersensibili” europei a considerare che il loro impiego è nell’ordine delle cose, qualunque contendente decida di fare il primo passo.
È inevitabile? È un destino o una scelta?
La guerra non è una calamità naturale, ma è comunque difficile fermarla quando è in corso.
Le manifestazioni contro la guerra non fermeranno questa guerra, le manifestazioni ambientaliste non fermeranno la devastazione ambientale alla quale stiamo assistendo e che è prodotta anche dalla guerra.
Non basta, evidentemente, opporsi a questa guerra, è necessario ostacolarne l’allargamento contrastando i piani e le strategie militari e politiche a lungo termine che ne stanno alla base, impegnandosi contro il riarmo e il militarismo sul territorio.
La debolezza intrinseca di un movimento che, al momento, non sa darsi un programma fondato su una concezione politica che vada al di là della contingenza attuale è anche frutto della militarizzazione sociale che ghettizza e isola il dissenso e fa del disagio economico e della minaccia della povertà un taser, un’arma per paralizzare le masse e impedire la rivolta.
La guerra è “destinata” a durare ed espandersi, a determinare nuovi disequilibri o equilibri geopolitici fino a trovare un esito finale. Mentre genera condizioni di vita sempre più precarie e inaccettabili rischia di distruggere, se non il pianeta, le basi della vita civile.
L’urgenza di fermare il processo di distruzione è una condizione oggettiva, la possibilità di farlo è una eventualità legata ai comportamenti sociali e politici, la volontà di farlo è una scelta.
Occorre “far mancare l’acqua ai pesci”.
Smettere di pagare i costi della guerra
Pagando i costi della guerra non siamo solamente le vittime, siamo la truppa disarmata che lavora per la propria distruzione.
Se non possiamo fermare la guerra in corso possiamo non combatterla.
Possiamo non rispettare le norme securitarie che limitano la libertà di manifestazione del dissenso. Possiamo sostenere le lotte sociali per la difesa del territorio contro l’estensione delle basi militari, contro l’uso del terreno pubblico per esercitazioni e manovre militari e in difesa dell’ambiente. Intraprendere campagne e azioni contro le servitù militari USA e NATO in Italia.
Riconoscendo che lo Stato non è l’interlocutore ma la controparte, possiamo rilanciare le lotte per il rifinanziamento e il ripristino della sanità pubblica, per l’ampliamento della previdenza sociale e per la tutela della sicurezza sul lavoro imponendo l’aumento della spesa sociale.
Possiamo organizzare il sostegno e l’accoglienza ai renitenti e ai disertori di ogni nazionalità.
Possiamo non pagare il riarmo ponendo tutti gli ostacoli possibili alla filiera dell’industria bellica.
Possiamo contrastare la manipolazione di massa dell’opinione pubblica da parte della propaganda diffondendo informazione veritiera.
Possiamo mobilitarci per impedire l’accesso alle scuole al personale dell’esercito e non permettere la colonizzazione da parte dell’industria della guerra della ricerca scientifica finanziata, direttamente e indirettamente, con fondi pubblici.
Ma, soprattutto, possiamo prepararci a non combattere e ad opporci concretamente alle guerre del futuro, quelle che i governi europei subalterni alla NATO si apprestano a combattere, con il sangue degli altri e con i nostri soldi, nei Balcani e in Africa. Possiamo organizzarci per riaprire quello spazio politico di confronto e resistenza che decenni di governi reazionari sono riusciti a chiudere. Preparandoci a raggiungere quella massa critica di partigiani dell’antimilitarismo e dell’internazionalismo necessaria a spegnere l’incendio in Europa per impedire che dilaghi nel mondo.
(25 marzo 2023, www.valeriapoletti.com)
[1] Cos’è il Recovery Fund e quali progetti comprende – 23 dicembre 2021, https://quifinanza.it/economia/recovery-fund-cose-a-cosa-serve/595882/
[2] Chiara Rossi, Come andrà Leonardo secondo Leonardo – 14 marzo 2022, https://www.startmag.it/economia/come-andra-leonardo-secondo-leonardo-guidance-2023/
[3] Cfr, tra l’altro.: Patrizia Licata, Infrastrutture critiche, Leonardo nel progetto “reti di imprese” connesso al Pnrr – 5 agosto 2021, www.corrierecomunicazioni.it/cyber-security/infrastrutture-critiche-leonardo-nel-progetto-reti-di-imprese-connesso-al-pnrr/
[4] Leonardo partner del programma globale di difesa 6.0 – 9 dicembre 2022, https://business24tv.it/2022/12/09/leonardo-partner-del-programma-globale-di-difesa-6-0/)
[5] Il progetto DIANA (Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic) del giugno 2021 “consiste nella realizzazione di una rete federata di centri di sperimentazione e acceleratori d’innovazione con il compito di supportare la NATO e i paesi alleati nel proprio processo di innovazione, sostenendo le start-up a sviluppare le tecnologie necessarie a preservare la superiorità tecnologica e facilitando la cooperazione tra settore privato e realtà militari”. Un fondo di un miliardo di euro è stato stanziato per finanziare le start-up coinvolte. Torino è tra le città designate ad ospitare uno dei più importanti poli di ricerca dedicato all’aerospazio, all’innovazione tecnologica di interesse militare in sinergia con il polo aerospaziale che coinvolge non solamente Leonardo, ma anche un centinaio di grandi, medie e piccole aziende italiane oltre, naturalmente, all’Università che svolgerà un ruolo fondamentale. La Spezia (in particolare per la ricerca di sistemi dedicati alla guerra sottomarina nei centri NATO e EU) e Capua, in Campania, saranno altri centri di primaria importanza dove la ricerca sarà funzionale ai nuovi programmi della NATO.
[6] Una bussola strategica per la sicurezza e la difesa – Per un’Unione europea che protegge i suoi cittadini, i suoi valori e i suoi interessi e contribuisce alla pace e alla sicurezza internazionali, 21 marzo 2022.
[7] Enrico Piovesana, Spese militari italiane in aumento anche nel 2023 – 2 dicembre 2022, www.milex.org/2022/12/02/spese-militari-italiane-aumento-anche-2023/?fbclid=IwAR1JuI6vzAf91fKepFbv9rgCpF8a0-ZDTbnkS9Yl8enBGR1KUq1p-xT2UJ4
[8] Spese militari, investimenti, missioni: gli impegni Nato dell’Italia – 31 marzo 2022, https://www.ilsole24ore.com/art/spese-militari-investimenti-missioni-impegni-nato-dell-italia-AEkhtEOB
[9] Riccardo Saporiti, Nato, la spesa militare pro capite – 23 dicembre 2022, Nato, la spesa militare pro capite | Tableau Public
[10] Sergio Fabbrini, Con la guerra russa è nato lo stato ucraino – 20 febbraio 2023, https://www.ilsole24ore.com/art/con-guerra-russa-e-nato-stato-ucraino-AEOo9ZpC
[11] La strategia segreta della Nato – Verbale – 30 dicembre 2019, https://www.limesonline.com/cartaceo/nato-strategia-segreta-verbale-1949
[12] A conclusione del loro 8° vertice, a Goa nell’ottobre 2016, hanno affermato la loro intenzione di battersi per un mondo multipolare, in cui le nazioni emergenti contino di più negli organismi internazionali e nelle decisioni riguardanti l’economia mondiale.
[13] Invitiamo caldamente a leggere questa significativa conversazione
[14] Lucio Caracciolo, La guerra in Ucraina avrà una soluzione militare o non ne avrà – 23 gennaio 2023, https://www.limesonline.com/rubrica/lucio-caracciolo-guerra-ucraina-fine-mandare-truppe
[15] “L’NPR suggerisce che gli Stati Uniti possono utilizzare armi nucleari in circostanze che non implicano l’uso potenziale di armi nucleari da parte di potenziali avversari. Ad esempio, secondo il documento, le armi nucleari devono scoraggiare un numero limitato di ‘attacchi di livello strategico ad alte conseguenze’, il che implica che i cinesi o i russi attacchino con armi chimiche o biologiche o ‘cyber, spazio, informazione’ o armi convenzionali avanzate. capacità potrebbero costituire tali attacchi. La revisione afferma inoltre che un ‘efficace deterrente nucleare è fondamentale per una più ampia strategia di difesa degli Stati Uniti’, ma non elabora” (2022 Nuclear Posture Review – 6 dicembre 2022. Sembra superfluo ricordare che gli USA hanno scatenato la guerra contro l’Iraq giustificandola con il possesso iracheno di “armi di distruzione di massa” che non sono mai state trovate! Il 28 febbraio 2023 la Russia ha sospeso la sua adesione al trattato New Start sul controllo delle armi nucleari.
FONTE
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