GOMORRA, MITO E REALTÀ DI NAPOLI

L’onda lunga di Gomorra, partita nel 2008, è arrivata undici anni dopo anche sul Lido di Venezia, dove alla 76° Mostra del Cinema è stato presentato in concorso Il Sindaco del Rione Sanità, trasposizione cinematografica del regista Mario Martone dal celebre dramma (1960) di Eduardo De Filippo, uno dei più illustri e popolari autori/attori del XX secolo. Un classico della grande tradizione teatrale di Napoli rivisitato in maniera fedele al testo originale ma con una connotazione più esplicita dell’egemonia sociale della camorra e un’atmosfera chiaramente influenzata (nella fotografia, nel linguaggio, nel ritmo) dagli stilemi estetici di Gomorra. Anzi, delle due Gomorra: il film di Matteo Garrone, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes del 2008, e la serie televisiva, giunta alla quinta edizione, che sta spopolando nel mondo.

 

DAI “GUAPPI” A GOMORRA

“Atto primo. Vicoletto lungo, strettissimo, sporchissimo. Dettagli di cumuli di immondizia accumulata alle cantonate. […] Entrata del Guappo: faccia patibolare, pantaloni di velluto a campana, camicia aperta sul petto, larga fascia alla cintura. Didascalia: Guappo, emerito camorrista, terrore del rione. Guappo raggiunge Nennella, l’afferra per i capelli e la guarda fissamente. Didascalia: t’amo e sarai mia. Guappo, sempre tenendo Nennella per i capelli, la bacia furiosamente, le dà uno schiaffo, la rialza, la bacia ancora. Nennella lo respinge furiosamente…”

Sono le scene iniziali di Napule!, il finto soggetto per film che la rivista “Cinematografo”, diretta dal regista Alessandro Blasetti, pubblicò nel 1927 per ironizzare sulle pellicole “d’ambiente” che in Italia e nel mondo diffondevano l’immagine folkloristica e stereotipata della città di Napoli. Insieme al sole e al mare, alla luna di Marechiaro e alle canzoni, l’altro elemento costitutivo e opposto dell’immaginario su Napoli era appunto la camorra, con la sua realtà di violenza e disperazione nei quartieri più miseri e degradati. Il Paradiso e l’Inferno, la “città del sole” e Gomorra. Già un secolo fa. E nella parodia di Cinematografo risaltano diversi dettagli che ritroviamo nella fiction di oggi: dall’eterno problema dei rifiuti alla Napoli buia e abbandonata delle periferie, dalla cultura della prepotenza alla mentalità maschilista tipiche della malavita, e perfino quella ricerca di uno statusestetico (basato sull’ostentazione della ricchezza e di un’eleganza “moderna”) che oggi fa parlare di un vero e proprio Gomorra style, anche sulle copertine di eleganti riviste di moda, alimentato dal successo internazionale del film e della serie televisiva prodotti in Italia.

Una scena da “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore

Ha dunque origini antiche il genere camorra movie, che nel cinema muto compare in alcuni drammi di Elvira Notari, la prima regista e produttrice italiana – film molto popolari a Napoli e tra gli emigrati in America e per questo censurati dal Fascismo (che non tollerava una rappresentazione realistica della città e dell’Italia) – e nella seconda metà del Novecento dà vita ad alcuni titoli importanti, di due tipologie differenti: le coproduzioni internazionali, con una cifra folkloristica più spiccata, come Amore e sangue (1950) e Il re di Poggioreale (1961), e la seconda con titoli made in Italy di forte impronta realistica, apprezzati da pubblico e critica, come Processo alla città (1952), di Luigi Zampa, e i più recenti Il camorrista (1986), che lanciò il futuro premio Oscar Giuseppe Tornatore, e Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), del regista napoletano Antonio Capuano.

Con il film di Tornatore si chiude definitivamente la rappresentazione (spesso folkloristica e superficiale) della camorra “storica”, quella dei “guappi”, figure arroganti e vistose, facilmente riconoscibili e con una dimensione rionale, per cedere il passo a una Nuova Camorra Organizzata, il clan del celebre boss Raffaele Cutolo, che a sua volta ha costituito il modello dell’organizzazione “manageriale” e dei traffici internazionali dell’attuale criminalità napoletana.

 

IL NUOVO IMMAGINARIO CRIMINALE

La svolta che apre la strada al “fenomeno Gomorra” arriva nel 2006, quando escono in contemporanea due libri destinati a segnare una nuova stagione di inchieste e di analisi sulla camorra e, soprattutto, un nuovo linguaggio per rappresentarla.

Il primo è ‘O sistema, dei reporter Matteo Scanni e Ruben H. Oliva, libro + documentario ambientati nelle periferie di Napoli, “in quell’immenso Bronx metropolitano che lo Stato ormai non raggiunge più e dove spadroneggia un sistema criminale più radicato e violento della vecchia camorra, con un insieme di comportamenti e linguaggi e un’economia illegale che stringe i napoletani fino a soffocarli”, dice il giornalista Enrico Fierro, autore di inchieste su camorra e ‘ndrangheta.

I boss del “Sistema” vengono dall’hinterland di Napoli, da Casal di Principe, in provincia di Caserta, dove il clan guidato da Francesco Schiavone, detto “Sandokan”, organizzato come la mafia siciliana, ha costruito un impero economico attraverso la gestione di affari illeciti “tradizionali” (racket, usura, prostituzione) e soprattutto di appalti per l’edilizia e del nuovo “business” miliardario dello smaltimento di rifiuti tossici, provenienti dal Nord Italia, in quella vasta area della Campania che oggi, per l’inquinamento, è conosciuta come “la terra dei fuochi”.

Roberto Saviano

Sono sempre loro, i “casalesi”, a minacciare di morte lo scrittore Roberto Saviano (che ancora oggi vive sotto scorta), autore nel 2006 di Gomorra, che da best seller internazionale è diventato un brand planetario e multimediale che sta connotando una nuova immagine di Napoli. Il successo del libro è replicato due anni dopo dal film di Garrone, che dopo l’affermazione a Cannes porta nelle sale di tutto il mondo le quattro storie di malavita e degrado (ambientale e morale) non direttamente comunicanti fra loro ma esemplari delle varie “facce” dell’universo camorristico: “Lo smaltimento dei rifiuti tossici, lo sfruttamento del lavoro nero, il meccanismo con cui il “sistema” arruola i ragazzini, il tentativo dei giovani cani sciolti di scalare le gerarchie criminali rappresentano altrettanti tasselli di un universo dal quale è impossibile fuggire: Garrone illumina di luce livida questo mondo pieno di morte e vitalità ferina, disegnando anche grazie all’abilità con cui mixa attori professionisti e volti presi dalla strada una credibile antropologia del Male. Ma i suoi protagonisti restano fino alla fine “personaggi”. Sarà poi la popolare saga televisiva targata Sky a farne dei “tipi” che nella serialità troveranno il loro fascino ma anche il loro limite,” spiega il critico cinematografico Antonio Fiore.

Il legame tra il prototipo cinematografico ed il serial sul piccolo schermo viene ribadito dal critico e docente universitario Diego Del Pozzo, autore del libro Ai confini della realtà. Cinquant’anni di telefilm americani: il film di Garrone porta il “´fenomeno Gomorra´ su un livello nuovo e ne suggerisce le potenzialità multimediali e transmediali che saranno successivamente esplorate dalla serie televisiva. Grazie al premio conquistato a Cannes l’universo criminale portato alla luce dal libro di Saviano diventa materia narrativa squisitamente audiovisiva, esaltata dallo sguardo registico di Garrone e dalla sua capacità di raccontare i luoghi e i corpi”.Ad alimentare l’eco mediatica del film di Garrone ha contribuito negli anni successivi la contaminazione tra fiction e cronaca, tra schermo e realtà: alcuni degli interpreti del film, attori non professionisti, sono diventati nella vita quotidiana protagonisti di reati e situazioni criminali, in una sorta di effetto collaterale imprevedibile e tragico, che a sua volta è materia congeniale per un nuovo romanzo o un’opera metacinematografica di amaro realismo. La trasformazione di questa realtà sociale richiede tempi lunghi, ma è evidente che Gomorra (film e libro) ha provocato un benefico choc sulle coscienze, come nel 1963 Le mani sulla città (Leone d’Oro a Venezia), il film di Francesco Rosi che rivoluzionò la rappresentazione, fino ad allora folkloristica, di Napoli e favorì una nuova consapevolezza popolare dei problemi della città. Non a caso l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, alla prima di Gomorra, indicò il film di Rosi come illustre antecedente di quello di Garrone, in virtù del cotè giornalistico e sociologico che li accomuna e che risulta invece quasi impercettibile nella serie televisiva.

 

L’EFFETTO SAVIANO

Già prima del film di Garrone, la popolarità di Saviano, alimentata da uno dei quotidiani più diffusi in Italia, la Repubblica, e poi dalla Tv di Stato, è stata all’origine di un nuovo micro-genere, il “cinema domiziano” (dal nome della Domiziana, l’antica strada dell’Impero Romano che collega i litorali delle province di Napoli e Caserta, oggi emblema di degrado umano e ambientale in cui spadroneggia la malavita), con una serie di film coraggiosi: Biutiful Cauntri (r. Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio, Peppe Ruggiero, 2007), La Domiziana (r. Romano Montesarchio, 2008), La bàs – Educazione criminale (r. Guido Lombardi, 2011) e infine Nato a Casal di Principe (r. Bruno Oliviero, 2017): questi ultimi due presentati alla Mostra del Cinema di Venezia, come il documentario Camorra (r. Francesco Patierno, 2018) e i film sull’”infanzia criminale” L’intervallo (r. Leonardo Di Costanzo, 2012), il più poetico e apprezzato, e Robinù (2016), del popolare giornalista tv Michele Santoro, fino al recente successo al Festival di Berlino 2019 di La paranza dei bambini, diretto da Claudio Giovannesi, come Gomorra tratto da un libro di Saviano e sceneggiato da Maurizio Braucci, scrittore napoletano molto impegnato nel sociale.

Due anni fa La paranza dei bambini è stato uno spettacolo di successo anche in teatro, scritto dallo stesso Saviano con il regista Mario Gelardi, direttore di un teatro nel popolare quartiere della Sanità, che nel 2007 aveva già messo in scena Gomorra, gratificato da importanti premi della critica e da oltre 300 repliche in tutta Italia.

Da questa pur rapida ricognizione risalta la notevole portata del romanzo di Saviano sul cinema e sullo spettacolo italiano, soprattutto su quello made in Naples, che da un decennio ha riconquistato vitalità economica e appeal internazionale, scalzando la Sicilia di Cosa Nostra dal vertice dei crime movie e diventando la location privilegiata da produttori e registi, fino al successo planetario della serie televisiva Gomorra, prodotta da Cattleya per Sky, giunta quest’anno alla 5° edizione, esportata in più di cento Paesi.

La copertina di Cinema Sud, diretto da Paolo Speranza

Ancor più del film di Garrone e dello stesso romanzo di Saviano, è questa serie televisiva ad aver diffuso un nuovo immaginario, in Italia e nel mondo, di Napoli e del suo hinterland: una città “senza”, privata di tutto quello che fino a oggi la identificava e la sosteneva. Una città buia, senza luce, mare e sole. Disperata, senza canzoni e senza valori. Abbandonata, senza lavoro e senza Stato. Spietata, e violentata da una malavita senza regole, sempre più feroce e sempre più giovane, e più femminile, con la scalata  di alcune donne-boss, mirabilmente interpretate dalle attrici Cristina Donadio (Scianèl), Maria Pia Calzone (Imma) e Cristiana Dell’Anna (Patrizia), che gli sceneggiatori hanno raffigurato altrettanto volitive, e persino più astute, dei capiclan di spicco: il “boss dei boss” Pietro Savastano, suo figlio Genny e il braccio destro, poi traditore, Ciro, rispettivamente gli attori Fortunato Cerlino, Salvatore Esposito e Marco D’Amore, che di alcune puntate della quarta serie tv è stato anche regista.

 

UN SERIAL “ALL’AMERICANA”

Per il suo produttore, Riccardo Tozzi, la Gomorra televisiva rappresenta una svolta epocale per l’Italia: “È per la tv italiana quello che nel 1945 fu Roma città aperta per il cinema”, afferma. Gli danno ragione i numeri, ma anche autorevoli esperti come il critico Alberto Castellano, della Fipresci (è “la serie che ha spezzato la tradizionale, piatta, scolastica serialità televisiva italiana per traghettarla nei territori della grande serialità americana”), lo storico del cinema Mario Franco (“un ottimo esempio di prodotto seriale di arte e fantasia”).

Simili pareri positivi si riscontrano presso gli stessi addetti ai lavori d’oltreoceano: la redazione di Hollywood Reporter, ad esempio, la definisce “la risposta italiana” alla serie Usa di successo Breaking Bed, ma c’è di più: la Gomorra televisiva non ha soltanto metabolizzato in maniera brillante la lezione di Hollywood ma si è imposta a sua volta anche sul mercato americano, tanto che – soprattutto per la qualità e il successo di questa produzione italiana – il regista delle prime due stagioni Sergio Sollima (poi sostituito da Francesca Comencini, Claudio Cupellini, Claudio Giovannesi), è stato scelto dalla produzione di Soldado per dirigere questo film da 50 milioni di dollari con attori del calibro di Benicio Del Toro, Josh Brolin, Matthew Modine, e ora si prepara a dirigere un western, molto atteso, da Colt, un soggetto inedito di Sergio Leone.

Nel frattempo, pur senza raggiungere i vertici di audience di Gomorra, le altre due serie dirette da Sollima, Romanzo criminale (2008 – 2010) e Suburra (2017), ambientati nelle periferie di Roma, restano fra i prodotti tv più amati dal pubblico, soprattutto giovanile.

Ma quali sono le ragioni di un successo così inedito e straordinario?

I protagonisti di Suburra

Per gli esperti la risposta è unanime: l’altissima qualità tecnica del prodotto, che si esprime nel rigore del plot narrativo, nel ritmo “all’americana” della regia, decisamente più vibrante rispetto agli standard europei, nell’alto profilo della sceneggiatura e dei dialoghi, nella caratterizzazione dei personaggi (interpretati in maniera eccellente dagli attori, quasi tutti formatisi nella grande tradizione teatrale e cinematografica di Napoli), che suscitano inevitabilmente appeal o repulsione facendo grande presa sul pubblico.

Si adatta perfettamente, al caso di Gomorra. La serie, la teoria esposta dal filosofo Umberto Curi nel saggio Appunti su cinema e mito (in Metamorfosi del mito classico nel cinema, Il Mulino, 2011): “È il mythos, e più in particolare il modo con cui esso è costruito, ciò che conferisce ad un’opera […] la capacità di suscitare il coinvolgimento emotivo” negli spettatori, e spesso anche l’identificazione con i personaggi del grande e piccolo schermo, benchè il realismo di molte situazioni finisca per rivelarsi più apparente che sostanziale.

Questo vale soprattutto nel confronto con il film di Garrone, più in linea con la tradizione veristica italiana laddove Gomorra. La serie segue il modello hollywoodiano anche nel tributo al noir più estremo e al fumetto: “Con la serie tv – sostiene Del Pozzo – il racconto criminale di Gomorra sconfina definitivamente nei territori della fiction pura, declinata secondo le regole del genere crime, con Napoli che somiglia sempre di più a una nerissima Gotham City e i personaggi tratteggiati fra tragedia classica e fumetto horror-supereroico”.

E poi c’è il “metodo Cattleya”, una novità per l’Italia (e l’Europa), basato sul lavoro collettivo e sull’interazione creativa tra regista, sceneggiatori e interpreti. Fondamentali risultano inoltre i modelli artistici di riferimento, diversi ma tutti di grande spessore. In Gomorra. La serie si respira l’eco del grande teatro, dalla tragedia greca (come rivela nelle interviste il regista Sollima) a Shakespeare, come della migliore tradizione del noir americano, e gli sceneggiatori mostrano di aver assimilato la lezione di alcuni importanti registi hollywoodiani contemporanei: il realismo della dimensione familiare e di clan in Scorsese, lo spirito pulp di Quentin Tarantino, e soprattutto la visione epica e al tempo stesso disperata di un classico gangster movie come Scarface (1983) di Brian De Palma.

 

ANTI-GOMORRA

L’importanza di questa serie tv è inoltre confermata, paradossalmente, dalla quantità e dal numero dei suoi detrattori.

Mentre il film di Garrone, e in precedenza il libro di Saviano, hanno suscitato consensi pressoché unanimi in pubblico e critica, nel caso di Gomorra. La serie il grande successo di audience ha provocato fin dalla prima edizione un’ondata di polemiche e reazioni che non tende ancora a placarsi.

Una parte dell’opinione pubblica di Napoli, delle istituzioni (fra gli “anti-Gomorra” spiccano sia il sindaco di Napoli Luigi De Magistris che il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, divisi su tutto il resto), degli intellettuali, e dello stesso mondo dello spettacolo, accusano gli autori della serie televisivia di diffondere un’immagine negativa e a senso unico della città, e soprattutto di un effetto diseducativo sui ragazzi, che nei personaggi di Genny o Ciro vedrebbero modelli da imitare.

Anche i ragazzini romani sognano di essere Genny Savastano”, ha dichiarato di recente al “Corriere del Mezzogiorno” il popolare regista e attore Carlo Verdone, unendosi al coro di tanti insegnanti preoccupati. Un suo collega, Davide Ferrario, invoca sul “Corriere della sera” la rappresentazione di un altro Sud, che non è solo mafia e camorra. Per Giuseppe Montesano, uno dei più noti scrittori napoletani, la serie tv ha perso per strada quell’indignazione anti-camorra che caratterizzava sia il libro di Saviano che il film di Garrone, finendo per mitizzare, rendendoli “affascinanti e seduttivi”, i personaggi dei giovani capiclan Genny e Ciro.

Anche per questo sono state premiate dal pubblico, a Napoli e in Italia, alcune rappresentazioni recenti e più suggestive della città, al cinema (Napoli velata, di Ferzan Ozpetek, protagonista Giovanna Mezzogiorno) e in tv, con la serie I bastardi di Pizzofalcone, tratta dai romanzi polizieschi di Maurizio de Giovanni, girata soprattutto in alcuni dei luoghi più solari e panoramici del centro storico.

“Ma è la realtà di Napoli, non la sua rappresentazione, a essere terribile”, ribatte ai detrattori Maurizio Braucci. Secondo lo sceneggiatore del film di Garrone “molti napoletani respingono la fiction per evadere psicologicamente dalla realtà così difficile in cui vivono, o perché inconsciamente vogliono rimuoverla, sentendosi anch’essi chiamati in causa. Occorre invece interrogarsi sulle cause di questo scenario sociale, che derivano soprattutto da una disoccupazione giovanile che a Napoli e nel Sud sta diventando endemica”, ha dichiarato Braucci alla presentazione del film La paranza dei bambini, svoltasi al cinema Partenio di Avellino il 22 febbraio 2019 su iniziativa dello Zia Lidia Social Club.

Concorda Francesco De Falco, il magistrato che ha condotto le inchieste sulla “paranza dei bambini” descritta nell’ultimo romanzo di Saviano: “A un certo punto delle indagini ci rendemmo conto che non si trattava più soltanto di criminalità, ma che anche fra bambini di 10, 11 anni si stava affermando uno stile di vita prepotente e violento. Era il 2013, prima del serial tv. Purtroppo Napoli è anche questo, e nascondendo la realtà non si risolvono i problemi”.

Più dei dibattiti sulla stampa, a ridimensionare la portata del “fenomeno Gomorra” sono state le parodie che ha generato, come ogni film di grande successo.

Sul web, ad esempio, spopolano gli episodi comici Gli effetti di Gomorra sulla gente del gruppo di videomaker napoletani “The Jackal”[1] (e, fino a qualche anno fa, gli spettacoli teatrali del trio “I Gomorroidi”), mentre al cinema hanno trionfato – ricevendo anche numerosi premi – i film dei Manetti Bros Song’ e Napule e Ammore e malavita (entrambi con protagonista l’attore napoletano Giampaolo Morelli), due brillanti parodie dei camorra movie che per ritmo, originalità di idee e qualità degli interpreti non hanno nulla da invidiare ai migliori film di genere, non solo in Italia.

Per rappresentare quel “teatro a cielo aperto” che è Napoli, del resto, non occorrono effetti speciali. La realtà è sotto gli occhi di tutti, è sufficiente filmarla con intelligenza e rispetto, come dimostra il recente successo (alla Berlinale 2019 e in vari festival) di Selfie, il film di Agostino Ferrente ambientato nel degradato Rione Traiano, all’estrema periferia di Napoli, dove il regista ha affidato a due sedicenni il ruolo di registi-attori nel quartiere in cui vivono, una sorta di autoritratto personale e collettiva che è una versione moderna (il film è interamente girato con uno smartphone) della tecnica del “pedinamento” teorizzata negli anni ’40 dal Maestro del Neorealismo Cesare Zavattini.

È la conferma che la realtà artistica di Napoli è ricca e varia, creativamente dinamica, e che la metropoli del Sud Italia possiede anche gli anticorpi culturali per far fronte agli “effetti collaterali” dello show business. E la stessa scelta di una canzone dal titolo Nuie vulimme ‘na speranza, del rapper napoletano Lucariello, per la sigla finale della quarta edizione del serial, prelude forse a uno scenario più aperto e ad una rappresentazione meno fosca e monocromatica di una realtà per molti versi terribile ma al tempo stesso piena di bellezza e di pensiero.

 

Lascia un commento