Processo alla città: la “Napoli svelata”

Volendo ricorrere ad una definizione ad effetto, potremmo ribattezzarlo “il nonno di Gomorra”. (E anche, in maniera più calzante, il fratello maggiore di Le mani sulla città). Sta di fatto che il recente boom su scala planetaria del genere camorra-movie abbia restituito a nuova vita il film di Zampa, tornato in auge come ineludibile – e temuta – pietra di paragone per tutti i film successivi sulla Napoli criminale.

 

IL CAPOLAVORO DI ZAMPA

I punti di contatto tra questi ultimi e l’illustre antecedente sono rappresentati soprattutto dall’appeal riscosso sul mercato internazionale e dall’elevata qualità tecnica che lo ha reso possibile: un ritmo sostenuto, che anche nelle sequenze meno spettacolari mantiene viva la tensione; un montaggio senza sbavature; la sceneggiatura estremamente accurata, con dialoghi serrati e quasi mai ridondanti; una fotografia di grande intensità emotiva, che non si limita a fare da sfondo all’azione ma ne è elemento costitutivo, esaltando le atmosfere noir in una Napoli del tutto diversa dall’oleografia tradizionale, con poco sole e molte ombre: quelle che anche metaforicamente nascondono i segreti inconfessabili di una città che l’integerrimo magistrato Antonio Spicacci intende portare alla luce a ogni costo.

Alcune scene di Processo alla città risultano memorabili e vibranti anche per lo spettatore di oggi: la lunga sequenza dell’interrogatorio collettivo nel ristorante Totonno a mare, coronata dall’esecuzione canora di Tradimento, motivo-chiave della storia, da parte della bella entraineuse Liliana (Silvana Pampanini, con la voce di Nilla Pizzi); il ritrovamento dei cadaveri dei coniugi Ruotolo, nella scena iniziale di forte tono espressionista; i confronti dialettici tra l’insospettabile boss Navona (Eduardo Ciannelli) e il giudice Spicacci (Amedeo Nazzari) e tra quest’ultimo e il delegato di polizia Perrone (Paolo Stoppa); l’inseguimento finale al porto. Il perfetto equilibrio tra contenuto e stile, tra la tensione etico-civile dell’ispirazione e il livello estetico-formale, ne fa tuttora un raro “esempio di ottimo film “medio”, quale si dovrebbe frequentemente incontrare, e che invece si incontra assai di rado poiché esige attenzione e gusto, fatica e ingegno”, come ebbe a definirlo Mario Gromo in Cinema italiano (1903-1953), edito due anni dopo il film da Mondadori.

Merito di un team di sceneggiatori che, accanto agli autori del soggetto Ettore Giannini e Francesco Rosi, annoverava lo stesso regista, Suso Cecchi D’Amico e due scrittori quotati come Diego Fabbri e Turi Vasile, e del cast, tecnico e artistico, di prim’ordine (Eraldo Da Roma al montaggio, Enzo Masetti alle musiche, e alla fotografia Enzo Serafin, che l’anno successivo si sarebbe aggiudicato il Nastro d’Argento, nonché due aiuto-registi di grande avvenire come Mauro Bolognini e Nanni Loy), come sottolineò all’epoca una parte della critica, talvolta con sottile malizia, quasi a voler ridurre i meriti di un regista al quale fino ad allora si era dato generalmente poco credito. “Fu un bel film, in definitiva – riconosce Goffredo Fofi, comunque “migliore di tanti che lo hanno, anche senza saperlo, imitato, forse di tutti”. (1) Per Fernaldo Di Giammatteo si trattò addirittura del “primo film serio” nella carriera di Zampa, “dopo tante esperienze rimaste sempre ai margini (quando non se ne erano paurosamente allontanate) dell’autentica serietà”. (2) Più limpida e significativa fu l’autocritica di Aristarco: Processo alla città è forse la migliore opera di Luigi Zampa; diretta con cura e attenzione, ci spinge a rivedere, in un certo senso, l’atteggiamento che prendemmo nel passato nei confronti di questo regista, che ora chiarisce la sua posizione morale, piuttosto contraddittoria e contorta, a esempio, in Anni difficili”. (3) Lo stesso Zampa ribadì trent’anni dopo, a Pietro Pintus: “Il mio miglior film è Processo alla città, che è drammatico e senza venature di umorismo”, (4) riconoscendo che alcuni titoli della sua filmografia successiva (Bisturi. La mafia bianca e Il medico della mutua) costituivano un ritorno ideale al film del ‘52, che in quella stagione, segnata dalla crisi del Neorealismo e dalla recrudescenza della censura, era stato l’apripista, come rileva Anton Giulio Mancino, “di una modalità di concepire l’opera cinematografica come veicolo di una ricerca politico-indiziaria”. (5)

La sentenza definitiva, per stare nella semantica giudiziaria, fu pronunciata dal collegio giudicante più esigente e temuto: l’intellighenzia napoletana, che per una volta fu pressochè unanime nell’approvare senza riserve una fiction sulla città. Per Domenico Rea, in particolare, il film di Zampa costituiva un’eccezione “illuminante” nella filmografia tendenzialmente superficiale e autoassolutoria su Napoli: “Questo film è una solida via aperta alla cinematografia napoletana. Insegna molte cose e una fondamentale: il rapporto stretto esistente tra basso e palazzo, tra povero e ricco, tra nobiltà e ipocrisia, tra onestà e corruzione e la verità che il signore (intendi ricco) vince sempre e non paga e pagano gli innocenti. Se i napoletani analfabeti o con diritto alla parola sapessero esprimersi, questa sarebbe la loro filosofia della storia”, commenta nell’inchiesta pubblicata il 25 luglio 1955 su “Cinema Nuovo”.

Bisognerà attendere il 1963, con Le mani sulla città, per rivedere sul grande schermo una narrazione rigorosa e vibrante sulla realtà sociale della Napoli contemporanea, ad opera del regista che era stato quindici anni prima, con Ettore Giannini, il coautore del soggetto di Processo alla città.

 

RICOMINCIO DA CUOCOLO

È proprio a Francesco Rosi che si deve la scintilla che diede origine al film, per una circostanza fortuita che con il tempo è diventata quasi leggendaria: il ritrovamento, su una bancarella di libri, di due volumi sul processo Cuocolo, in particolare Così parlò Fabroni, la monografia del 1914 di Roberto Marvasi, battagliero giornalista e avvocato napoletano di idee socialiste, basata sulle rivelazioni del capitano dei carabinieri che aveva condotto la maxi-inchiesta sulla camorra napoletana seguita all’omicidio dei coniugi Cuocolo. Già assistente di Visconti per La terra trema, il 26enne Rosi iniziò così a collaborare al progetto di un film ispirato a quell’evento insieme a colui che ne era l’assertore più convinto e avrebbe dovuto esserne il regista: Ettore Giannini.

L’idea non era del tutto originale. Il processo Cuocolo, con questo titolo, era già stato realizzato dalla napoletana Dora Film di Elvira e Nicola Notari “in tempo reale” (6) ed aveva ispirato due pellicole della casa di produzione Ambrosio di Torino: La camorra napoletana (1906) e cinque anni dopo Nella camorra (Scene di malavita napoletana), con il divo italiano dell’epoca Alberto Capozzi. Alcuni protagonisti della vicenda li ritroviamo addirittura come interpreti di se stessi in un film del 1922, Il delitto Cuocolo, diretto da Oreste Ghirardini, che aveva suscitato grandi attese anche oltreoceano ma fu sequestrato dalla censura: fra questi Gennaro Abbatemaggio, il primo superpentito della malavita organizzata, categoria fortunata di un sottogenere cinematografico che arriverà fino ai giorni nostri con Joe Valachi e Tommaso Buscetta. (7)

Il progetto di Giannini era già delineato nel ’49, come rivelò su “Il Tempo” del 6 maggio 1949 Gian Luigi Rondi: “Un film giallo, dunque? No, ma, in un certo senso, poliziesco, dato che il racconto si svilupperà in modo da scoprire via via il mondo oscuro ed ignorato della camorra, giustificando azioni apparentemente legittime, chiarendo i retroscena, definendo i personaggi sempre di più avviluppati nell’inesorabile rete dell’intrigo. Intorno, però, vi sarà una Napoli autentica e reale, non studiata solo in superficie”.

Restavano da scegliere la casa di produzione (alla fine sarà la Film Costellazione, di area cattolica) e soprattutto il protagonista: pur senza nominarlo, Rondi fa trapelare il profilo di Vittorio De Sica, che due anni prima aveva interpretato il remake di un classico di inizio secolo come Sperduti nel buio.

Che cosa determinò un’attesa di tre anni per il primo ciak? Oltre alla complessità produttiva di un progetto ambizioso influì il tentativo di censura preventiva sul film, che spinse infine Giannini, decisamente ostile a queste ingerenze, a cedere la regia a Zampa, per il quale aveva scritto nel ’42 i dialoghi per Fra Diavolo. Il regista romano accettò con entusiasmo, come confida nell’agosto del ’52 a “Settimo Giorno”, (8) stabilendo da subito un’empatia con la città durante le riprese in esterni. (9)

 

DAL “CONTESTO” AL “SISTEMA”

Se nel 2006, anno di svolta per l’immaginario sulla Napoli criminale, il documentario

‘O sistema, di Matteo Scanni e Ruben H. Oliva, ha svelato la fisionomia della nuova criminalità napoletana, più violenta e radicata della vecchia camorra, nel 1952 Processo alla città ha avuto il merito di illuminare per la prima volta il contesto sociale che alimentava il fenomeno camorristico, adoperando un linguaggio e uno stile del tutto nuovi e coerenti con lo scenario: nessuna concessione al “pittoresco” tipico dei film su Napoli, né all’immagine caricaturale di “guappi” e “picciotti” tanto diffusa (anche in tempi recenti) nella rappresentazione made in Hollywood dei clan italoamericani, men che mai ai toni melodrammatici (come in un film su Napoli coevo a quello di Zampa, Amore e sangue, produzione italo-tedesca del 1950 diretta da Marino Girolami, con Massimo Serato e una fascinosa Maria Montez), ma finalmente una narrazione lucida e veritiera, storicamente fondata, della Napoli criminale, che assorbiva in un sapiente amalgama la lezione recente del Neorealismo con il noir francese del decennio precedente e soprattutto con la tradizione dei polizieschi americani, avvalendosi anche della straordinaria scuola attoriale del teatro napoletano.

Se i modelli internazionali, la tensione realistica e la qualità della sceneggiatura avvicinano per alcuni versi Processo alla città ai “Saviano movies”, sul piano dell’ispirazione e della prospettiva le differenze risultano notevoli. In Gomorra (film e serie tv) lo strapotere della malavita nel corpo sociale è un dato acquisito, costitutivo, sostanzialmente irrimediabile della realtà di Napoli e del suo hinterland, di cui non vengono indagate le cause perché lo sguardo degli autori è interamente focalizzato sulla fenomenologia e sulle dinamiche interne, tanto che i “buoni” sono del tutto assenti.

In Processo alla città, pur in un contesto sociale oscuro e vischioso, i veri protagonisti sono i buoni, anzi “il buono”: il magistrato integro e coraggioso che per affermare la legalità non esita a scontrarsi con i “cattivi” ma soprattutto – ed è questa la novità più importante – con un contesto molto più vasto e insidioso in cui agiscono i falsi alleati, i sedicenti onesti, i collaboratori leali ma ottusi (come il delegato Pirrone), i colleghi solidali ma deboli (il Procuratore del Re), e persino con la sua famiglia, senza tuttavia lasciarsi impigliare nella fitta ragnatela che ha finito per avvolgere un’intera città.

A differenza di tanti titoli del filone giudiziario, qui il processo evocato nel titolo non si svolge, l’azione si ferma un attimo prima: quel che conta, per gli autori, è guidare lo spettatore nei meandri e nell’anima sotterranea della città che il giudice Spicacci vuol trascinare in tribunale, per costringerla a fare una volta per tutte i conti con se stessa. È l’esame di coscienza collettivo che, sfidando il banditismo e la mafia, invoca il coraggioso pretore Guido Schiavi nella scena finale di In nome della legge, il film di Germi che precede di tre anni Processo alla città e ne condivide alcuni aspetti importanti, dalla fiducia nel cambiamento alla dimensione eroica del protagonista, che come nei poemi epici (e nel genere western che da quelli deriva) sovrasta i nemici non solo sul piano morale ma anche fisico ed estetico. È sintomatico che in entrambi i film per il ruolo principale vengano scelti due giovani attori popolari e prestanti dell’ultimo cinema fascista: l’Amedeo Nazzari che aveva rappresentato la risposta italiana a Errol Flynn e il Massimo Girotti pre-neorealista, potenziale versione italiana di Gary Cooper anche per le doti atletiche, messe in mostra in Harlem (1943). Nel cinema italiano “si ricostituiva una dinastia di buoni, con Nazzari a capostipite e sovrano…”, scrive nel’52 “Scenario”. (10) Un regno di breve durata: nei film giudiziari made in Italy finiranno ben presto per prevalere giudici eroici ma infine sconfitti, o tormentati e irresoluti, spesso corrotti, non di rado finanche ridicoli o grotteschi.

Di Processo alla città resta invece una lezione di buon cinema, che nel decennio successivo uno dei suoi artefici, Francesco Rosi, svilupperà nei suoi film più importanti, da Salvatore Giuliano a Le mani sulla città, da Il caso Mattei a Cadaveri eccellenti (quest’ultimo tratto da Il contesto di Sciascia), in un coerente percorso artistico e civile che nel suo insieme rappresenta il tentativo finora più alto di imbastire sul grande schermo un rigoroso, e tuttora aperto, Processo all’Italia.

 

 

NOTE

1 – Goffredo Fofi, Cinema civile: Processo alla città, in Amedeo Nazzari. Rigore e Pathos, Gli Archivi del ‘900, 2007;

2 – “Rassegna del film”, n. 7, ottobre 1952;

3 – “Cinema”, n. 90, 15 luglio 1952;

4 – Commedia all’italiana. Parlano i protagonisti, a cura di Pietro Pintus, Gangemi editore, 1985;

5 – Anton Gulio Mancino, Processo alla città: alle origini del film politico-indiziario italiano, in Luigi Zampa. Dalla parte del pubblico, a cura di Orio Caldiron e Paolo Speranza, “CinemaSud”, 2018;

6 – Sulla figura e la filmografia di Elvira Notari cfr. La film di Elvira, “CinemaSud”, Cactus Film, Laceno d’Oro”, 2016;

7 – Su questo film cfr. Una nuova onta risparmiata a Napoli. Il sequestro della cinematografia della tragedia Cuocolo ideata e inscenata da Gennaro Abbatemaggio, in “Scintilla”, 16 dicembre 1922;

8 – Cfr. William Lombardi, L’ex bandito Nazzari processa una città, “Settimo Giorno”, 29 agosto 1952;

9 – Sergio Lori, Imputata Napoli nel Processo a una città, “Film d’oggi”, 28 maggio 1952;

10 – Fabrizio Dentice, I nostri cattivi, “Scenario”, 15 giugno 1952.

 

 

 

 

 

 

 

 

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