A cento anni dalla nascita – Domenico Rea e il cinema

L’unico film da una sua opera, Ninfa plebea, diretto da Lina Wertmuller, ebbe successo anche all’estero, ma Domenico Rea non ha avuto il piacere di vederlo: nel 1996 ci aveva lasciato già da due anni, e questa trasposizione postuma non attenua il rimpianto per l’incontro mancato tra lo scrittore e il cinema, di cui era appassionato cultore.

Di cinema aveva cominciato a scrivere fin dal dopoguerra, su “Milano-sera”, con Charlottesca, che prelude a una serie di arguti profili di divi che annovera fra gli altri i due miti della sua generazione, l’atomica Rita Hayworth e naturalmente Sofia Loren, descritta come una novella Cenerentola nel memorabile Sophia a Capri, nel 1959.

Contemporaneamente, lo scrittore di Nocera Inferiore il cinema lo studia (mirabile è il saggio del 1960 La capitale del cinema, sul periodo del muto a Napoli), scrive rare ma importanti recensioni di film (soprattutto su “Paese sera”), interviene nei dibattiti sulle riviste più autorevoli, come “Cinema Nuovo”, dove nel luglio del ’55 pubblica un intervento sull’immagine di Napoli nel cinema (Gli allegri arcangeli) che fa tuttora scuola. La sua polemica contro le rappresentazioni oleografiche di una città inventata non risparmia neppure film di valore come L’Oro di Napoli, Carosello napoletano, Due soldi di speranza, con una sola eccezione “illuminante”: Processo alla città, di Luigi Zampa, che indica “una solida via aperta alla cinematografia napoletana”.

Al Neorealismo “rosa”, rassicurante e bonario, degli anni Cinquanta, Rea continuerà a preferire il Neorealismo puro delle origini, più coraggioso e attento al mondo plebeo, affine per tematiche e linguaggio ai suoi primi capolavori, Spaccanapoli e Gesù, fate luce. Anche per questo nel 1966 accetterà con entusiasmo la presidenza del “Laceno d’Oro”, un festival “povero, poverissimo” ma “con un alto significato di cultura”, che i giornalisti Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio avevano fondato nel nome del Neorealismo sull’altopiano del Laceno, nel 1959, con Pier Paolo Pasolini, per poi trasferirlo definitivamente ad Avellino e Atripalda. La presidenza quinquennale di Rea coincide con l’età d’oro del Festival irpino, in una felice simbiosi di mondanità ed impegno, di “dolce vita” provinciale e di fermenti sessantottini. Toccò allo scrittore napoletano, nel ’66, consegnare il primo premio alla grande attrice svedese Ingrid Thulin, l’anno successivo ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani per I sovversivi, nel ’69 a Ettore Scola (primo riconoscimento da regista, per Il commissario Pepe), nel ’70 al Tinto Brass sperimentale e impegnato di Drop out e ai protagonisti del film Franco Nero e Gigi Proietti, e al giovane Pasquale Squitieri di Io e Dio.

 

Domenico Rea con Roberto Amoroso. Sopra è con i fratelli Taviani

Lo scrittore aveva intanto abbandonato le speranze di vedere i suoi racconti sul grande schermo, dopo la duplice “grande illusione” vissuta nel 1952. Quell’anno, benchè Napoli andasse di moda nel cinema, nessun produttore si era fatto avanti per il soggetto pubblicato sul n.12 di “Cinema Nuovo”, Una Moll Flanders napoletana, ispirata al romanzo di Defoe, che attraverso la vicenda di Amelia e Mamertino, due tipici “marginali” di una certa età, rappresentava – con qualche venatura felliniana ante litteram – una Napoli inedita ma vera. Troppo, per i gusti del pubblico di allora, che al cinema voleva una Napoli tutta “canzoni, Vesuvio e lacrime”.

La stessa ragione che, sempre nel ’52, deve aver indotto il produttore napoletano Roberto Amoroso a rinunciare al progetto di Gesù, fate luce sul grande schermo. “Il film sarà realizzato a colori, in coproduzione con una casa hollywoodiana e con la partecipazione di attori americani”, annunciava il settimanale “Hollywood” del 20 dicembre ’52, con tanto di foto dello scrittore, in piedi a sinistra, che firma il contratto con Amoroso (oggi custodita nell’archivio di “Cinemasud”).

Bisognerà attendere il 1983 per vedere, ma sul piccolo schermo, La segnorina, la novella che apre Spaccanapoli, inserita in una rassegna della Terza Rete della Rai sui racconti di dieci scrittori italiani diretti da altrettanti registi famosi. A Rea toccò il conterraneo Pasquale Squitieri, coadiuvato nella sceneggiatura da Antonio Ghirelli e Ugo Pirro, che affidò i ruoli principali a Lina Sastri, Ida Di Benedetto e Leopoldo Mastelloni. “Una ballata crudele alla Bob Dylan”, la definì il regista, che fu trasmessa il 7 maggio 1983 alle 22.00 e in replica il pomeriggio successivo. In attesa di un risarcimento cinematografico al genio narrativo di Rea, sarebbe auspicabile almeno poter recuperare, per il centenario, questa fiction televisiva bella e invisibile.

 

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