Aspra rivalità ‘in rosa’

Notizia double face, evento con il segno ‘più’ e il suo opposto, il ‘meno’: i maschi del partito democratico, finora rigorosamente ingeneroso con le sue donne in carriera politica (a ragione si ricorda con non celata nostalgia il caso di Nilde Jotti, eletta alla presidenza della Camera) inverte il senso di marcia, indotto a rivedere il discrimine da critiche interne-esterne e affida la sovrintendenza dei parlamentari alla intraprendente Serracchiani. Romana in trasferta nel profondo Nord, è stata presidentessa del Friuli-Venezia Giulia, parlamentare europea, vice presidentessa del Partito Democratico. Da renziana doc esce con la palma della vittoria dalla competizione con Marianna Madia, parlamentare dal 2008, ministra della semplificazione, nominata nel 2014 e portavoce del Pd. La contesa per assumere il ruolo di capogruppo alla Camera è un vero ‘casus belli’ per l’asprezza dello scontro, che ha impegnato e diviso il gruppo dirigente democratico. L’ha spuntata Debora Serracchiani con un considerevole scarto: 66 sì contro 24, ma il divario di voti non ha smorzato i toni alti della contesa e ha esacerbato la triste realtà del ‘partito di più partiti’, sconnesso, frazionato in correnti, ideologie non coincidenti, scissioni sventate in extremis, inquinamenti del fuoco amico e poi nemico per la presenza-assenza di renziani palesi o appena mascherati. Il blitz, che ha proiettato la Serracchiani dove era cosa ardua vedere un ruolo femminile, non è stato gradito a più di un esponente vip del Pd, anzi ha reso gli eredi del Pci somiglianti al modello democristiano di epiche correnti e sottocorrenti. Se l’ex governatrice era predestinata a prevalere, allora perché la farsa del voto, le accuse di ingerenza, per esempio di Del Rio sponsor della vincitrice?  Perché gratuite insinuazioni su presunti, ripetuti cambi di campo della Madia, che in fase pre elettorale è stata contemporaneamente etichettata come sotto protezione di D’Alema, Zingaretti, Renzi? La risposta: dalemiana perché alla Camera gli sedeva accanto, renziana perché ministra del suo governo, pro Zingaretti perché l’ha votato al congresso? Ridicolo. E di rimando il citato sospetto sulla sponsorizzazione della rivale di Del Rio, ovviamente smentita con altrettanta decisione. Di là da meriti, titoli accademici e rispettive esperienze politiche, il caso Serracchiani-Madia segnala la quantità di fatica a cui deve applicarsi Letta, alle prese su più fronti: non è semplice misurarsi e aver ragione dell’aggressività leghista di Salvini, sovranista incallito; la guerra alla pandemia è costellata di insidie, di un febbrile, sotterraneo lavorio per mettere le mani sui miliardi della Ue. Inoltre, la compattezza del partito democratico è una pia, quanto utopica ambizione, evidenziata dalla discussa opportunità di distogliere il Pd dal compito primario di contrastare la crisi a favore di beghe correntizie, che tra l’altro lo hanno impegnato a dirimere la disputa per la nomina a capogruppo, gli hanno suggerito di glissare sulla finta corsa a due decisa, secondo la Madia prima del voto, al punto da impedirle di rivolgersi ai parlamentari dem, mentre la rivale ha potuto illustrare il suo programma. Le due ex contendenti, per quieto vivere, è probabile che sotterrino l’ascia di guerra, che si dividano boccate di fumo del calumet della pace. Letta non lo consideri un patto solenne di fine ostilità del Pd, ma solo un temporaneo armistizio.


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