Come la legge: il fisco non è uguale per tutti

Se un uomo qualunque sta per finire nel baratro di debiti, che non riesce a estinguere, lo evita solo se infilandosi nel tunnel del ricorso all’usura e quasi sempre l’esito della disavventura è la rovina, a volte guai giudiziari, in casi estremi il suicidio. Se uno Stato si rende colpevole di un debito pubblico miliardario il massimo della pena da sopportare è lo sporadico discredito internazionale e il rito della promessa da marinaio di sanare il vulnus finanziario con un drastico intervento che spazzi via lo scandalo dell’evasione fiscale. Proposito dimenticato in fretta, perché il potere di veto di quanti non pagano le tasse è vincente sulle buone intenzioni.

Succede, che a finanziare lo Stato, quello italiano per esempio, siano i prelievi da strozzinaggio sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e che domina indisturbato il ‘me ne frego’ delle medie e grandi ricchezze, dei potentati economici sconosciuti al fisco. Un’idea esplicativa del caso italiano si delinea agevolmente con un diretto confronto di cifre del debito pubblico, che ammonta a 131 miliardi di euro e dell’evasione fiscale, cresciuta nel tempo fino al culmine di 190 miliardi. Lo sconcerto, la rabbia chi subisce questo clamoroso squilibrio rifiuta l’alibi di ‘tutto il mondo è paese’ evocato da chi assolve l’Italia scorrendo l’elenco di altri Stati debitori, a dimensioni variabili.  Il caso limite è della Grecia: debito pubblico 181 miliardi, media individuale di evasione 1.845, ma i nostri dati non si discostano molto da questo estremo. Fosse in vita, il generale Lapalisse infilerebbe il paradosso del debito da azzerare con la sconfitta dell’evasione nel capitolo delle ovvietà. Purtroppo, oltre a riposare serenamente nella sua tomba, lui, che ha ispirato la definizione ‘lapalissiano’, non ha allevato eredi e l’equazione in grado di redistribuire il dovere per tutti di pagare le tasse rimane perennemente irrisolta. Sicché il ‘fisco uguale per tutti’ (ovviamente ‘tasse progressive’, cioè alte per redditi alti e basse per redditi bassi) finisce in mesta rassegnazione per le inadempienze di ogni governo e sopporta contemporaneamente indignazione per i benefici seriali di condoni e amnistie, la tolleranza di ricchezze anonime che emigrano indisturbate al riparo di paradisi (o meglio, di inferni) fiscali. Anche il banchiere Draghi, accreditato esponente dell’élite che sovrintende ai grandi processi finanziari del mondo, in automatico ha inserito nel progetto dell’esecutivo ‘tutti dentro appassionatamente’ il titolo “evasione fiscale”. In attesa di scoprire se è un atto ‘dovuto’ incompiuto, una promessa di marinaio, sembra meritare  priorità la decisione salvifica di condonare cartelle fiscali, multe e affini, provvedimento meno eclatante rispetto alle richieste di gran lunga più assolutorie di Lega e 5Stelle, ma pur sempre condono. L’auspicio? Che non sia il prologo di sanatorie ad personam per quanti, in controtendenza, hanno accresciuto le ricchezze pregresse grazie alla pandemia.

Sono rari, ma significativi gli esempi di giustizia nel fissare i criteri di contribuzione fiscale.  Immediatamente attuabile, per smascherare yacht di nababbi, che a poppa hanno improbabili bandiere di Paesi esotici, o proprietà d’ogni genere intestate a prestanome, altri sotterfugi, è la tassazione all’origine, tanto più onerosa quanto più alto è il valore del bene acquistato.

Purtroppo, pensare in delirio di utopia, ha il destino segnato dal crudele prevalere della realtà, perciò nessuna illusione sulla traduzione in concreto dei buoni proponimenti di questo governo molto, troppo hybrid.


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