Questione di galateo

Il rude e servile Pompeo, allineato e coperto all’ombra dell’ancor più rozzo datore di lavoro, non ha consapevolezza dell’abisso di autorevolezza che separa il capo della Chiesa cattolica e la sua influenza sul Pianeta Terra, sostenuta dalle buone relazioni tessute da Bergoglio con le religioni ’altre’. Sbarcato in Italia per incamerare la sottomissione del nostro ministro degli esteri al potere economico e militare degli Stati Uniti, il segretario di Stato Usa ha ipotizzato di trasformare l’astio anti cinese di Trump, spaventato dall’escalation di Pechino ai vertici del potere mondiale, in un atto di sottomissione del Vaticano all’intenzione del tycoon di coinvolgere papa Francesco nella condanna dell’accordo con la Cina sulle nomime di vescovi di quel Paese. Bergoglio, con la calma e la fermezza, che guida il suo impegnativo pontificato, ha rifiutato di incontrare Pompeo. Ha così marcato il dissenso per un incontro a livelli impropri, tra il capo della Chiesa e un subordinato del presidente Usa, ma soprattutto ha riocrdato che nessuno può condizionare l’autonomia del Vaticano. Esplicito il commento di monsignor Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati: “Trump non strumentalizzi il Papa per la sua campagna elettorale” e l’ambasciatore cinese in Italia ci è andato gù duro: “Pompeo diffama e attacca senza motivo la Cina”. Pompeo porterà a casa la sviscerata prova di ‘fratellanza’, addirittura entusiasta, ordita da Di Maio e il no, non meno convinto, di Parolin, ministro degli esteri della Santa Sede, alla richiesta americana di rescindere il rinnovo dell’accordo sui vescovi della Cina. Il sottosegretario americano se ne torna a casa anche con il rimprovero (‘l’irritazione’) del Vaticano per un articolo del sottosegretario Usa pubblicato da una rivista del cattolicesimo conservatore americano, per niente gradito.
Una delle ragioni primarie dello scarso interesse e dell’insoddisfacente seguito che rendono noiosi, peggio inguardabili, i confronti televisivi tra esponenti di partiti ‘nemici’, è la gara alla sopraffazione verbale dell’avversario, sostenuta da livelli assordanti della voce e soprattutto dala tecnica dell’interruzione, della sovrapposizione reciproca alle argomentazioni di chi tenta di esprimerle compiutamente. L’esito deplorevole è la rissa, il ricorso all’insulto. Che dire, finchè a litigare sono due mezze tacche della politica, con un clic si può tranquillamente sintonizzarsi altrove, su un bel documentario, un film d’autore. Se a interrompersi urlando sono i due tipi che confliggono per occupare la Casa Bianca, lo stupore per un faccia a faccia televisivo simile alla baruffa di litiganti dei bassifondi muta rapidamente in fastidio, fino al disgusto. La percezione del gigante mondiale, che sarà governato da uno dei due astiosi miliardari, induce allo sconforto e avalla la sentenza di condanna dei super potenti, assolutamente inadeguati a gestire ampiezza e complessità delle emergenze che incombono sul futuro della Terra. L’indecente confronto televisivo Trump-Biden ha scandalizzato anche la commissione Usa dei dibattiti presidenziali, che è corsa ai ripari, per evitare lo sconcio delle loro intemperanze.  Per il secondo round del dibattito sarà consentito di chiudere il microfono di chi interrompe l’interlocutore, anche perché le regole permissive del primo scontro sono state condannate dai media. Flop degli ascolti: solo 29 milioni telespettatori delle emittenti Abc, Cbs, Nbc e Fox, ovvero un calo del 35% rispetto al dibattito del 2016 tra Trump e Hillary Clinton, seguito da 45 milioni di persone. Insomma strillare non paga.

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