Il vangelo (politico) secondo Matteo

Matteo Renzi fa poco o niente per nascondere la caccia agli elettori moderati per cui ha partorito ‘Italia Viva’, con l’obiettivo di ereditare i sudditi dell’anacronistico fondatore di Forza Italia. La proverbiale astuzia politica dell’ex sindaco di Firenze, già in discussione per la clamorosa scivolata post referendum, che ha ghigliottinato il 40% del Pd, ha subìto un pugno nello stomaco per aver scoperto di raccattare misere percentuali di consensi, come raccontano a ripetizione impietosi sondaggi. Che fare? Il birbante Matteo si è tuffato nel collaudato meccanismo di ago della bilancia, con un ‘dentro-fuori’ dalla maggioranza di governo che ha fruttato l’ingaggio nella coalizione giallorossa di suoi ministri e un minimo di visibilità, concessa in cambio di voti determinanti per l’esecutivo.
Un paio di anomali comportamenti non hanno convinto Renzi che il percorso ondivago intrapreso non giova alla salute di ‘Italia Viva’: nei giorni scorsi l’astensione dei suoi tre rappresentanti nella giunta per immunità ha determinato il no al processo Salvini, accusato di sequestro aggravato di persona e ha rinviato al Senato la decisione finale. Poi il plagio della destra, con la proposta dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, che la Costituzione assegna alle due Camere e a tre consiglieri di ogni regione.
Alla funambolica sequenza renziana manca un esaustivo tassello per riacquisire la perduta popolarità: chissà, magari la prossima alleanza con Giorgia Meloni, appetitosa alleata, che continua a erodere terreno a Salvini e probabilmente a Forza Italia? Chissà: a Renzi Basterebbe sgombrare dalla mente la contiguità di Fratelli d’Italia con la destra, estrema o non e chissà unificare in un logo comune il riferimento all’Italia. Consultati, i creativi della pubblicità sembra abbiano suggerito l’onnicomprensivo “Siamo l’Italia”.
Sarebbe un potenziale ‘Siamo l’Italia’ anche Gennaro Migliore, deputato renziano titolare di un viaggio da globetrotter nella galassia dei partiti. Questi i passaggi: Rifondazione comunista, Pd, Italia Viva. Pubblico Ministero del processo permanente al governo, di cui il suo partito è socio e oppositore a giorni alterni, mette sotto accusa la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina. Questo il capo d’accusa: “Il suo operato di questi mesi ci lascia perplessi”. Vana l’attesa di conosce le ragioni della bocciatura. La sentenza di Migliore è tutta lì.
Dopo sette anni Lucia Annunziata si dimette da direttrice di Huffington Post. Perché affaticata, sovraccarica di impegni giornalistici? Niente del genere e la conferma è l’incarico contestuale di curare per la ‘Treccani’ il settore ‘giornalismo’. No, l’Annunziata ha lasciato un attimo dopo il passaggio di proprietà del gruppo Gedi (la Repubblica, Espresso, Huffington Post, eccetera) da De Benedetti alla Fiat. A torto o a ragione, le dimissioni? A giudicare dalla gestione Molinari della Repubblica in chiave Elkann, che ha licenziato brutalmente il direttore Verdelli, la separazione dell’Annunziata dal gruppo è professionalmente ineccepibile. Il quotidiano fondato da Scalfari è la brutta copia del precedente (consistente presenza di articoli sulla Lega, nel bene e nel male) e Huffington Post sembra sempre più la succursale di giornali della destra. Uno degli ultimi articoli profitta dell’immagine del cortile di Palazzo Chigi, con il premier Conte in lontananza e il portavoce Casalino in primo piano, per attaccare il presidente del consiglio. Resta nel gruppo Massimo Giannini, ma forse ritenuto ‘troppo di sinistra” è dirottato, seppure con il premio della direzione, alla Stampa di Torino, altra testata della Fiat, dove non gli sarà facile conservare l’autonomia di pensiero e di espressione.

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