Nell’anniversario della strage di Capaci, pubblichiamo questo importante contributo del sociologo Pino Arlacchi, stretto collaboratore Giovanni Falcone.
L’anniversario di Capaci non merita di annegare nella retorica. I valori colpiti il 23 maggio del 1992 con l’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e della loro scorta, sono oggi perfettamente attuali. Non solo in Italia, ma nel mondo.
Ma in che cosa consiste l’eredità di Falcone, la ragione principale per la quale lo ricordiamo a quasi trent’anni dalla sua scomparsa?
Sono stato il suo più stretto collaboratore e amico al di fuori dell’ambiente giudiziario, e provo qui ad esporre i miei pensieri sul tema.
La memoria di Falcone è viva non solo e non tanto per le doti di coraggio e di umanità che lo contraddistinguevano. Esistevano allora molti altri uomini di legge coraggiosi ed onesti, che
esercitavano la propria professione con scrupolo ed imparzialità, combattendo per ciò stesso il malaffare. E Falcone era senza dubbio uno di loro, un servitore della legge senza pretese di
straordinarietà. Chi lo ha conosciuto davvero sa quanto «normale» e discreta fosse la persona.
No. La differenza tra Falcone e tutti gli altri stava in un talento professionale al confine con la genialità. Non si spiegherebbe altrimenti la solidità dei processi da lui istruiti, tutti conclusisi con condanne severe a feroci capimafia.
E non si spiegherebbe il fatto che le misure antimafia da lui propugnate siano diventate lo standard mondiale in materia. E sono fiero di aver dedicato gran parte del mio mandato all’ ONU a realizzare il sogno più grande di Giovanni Falcone: far nascere un trattato universale antimafia.
Quello firmato proprio a Palermo nel dicembre del 2000 da 124 paesi.
Tra il 1982 – data dell’assassinio Dalla Chiesa e del varo della prima legge di reale contrasto della mafia – e la Conferenza di Palermo, l’Italia è stata il laboratorio più avanzato della lotta contro la criminalità transnazionale. Assieme a un gruppo di colleghi e collaboratori che hanno poi proseguito quell’impegno, Giovanni Falcone ha creato una serie di tecnologie giuridiche
d’avanguardia dimostratesi di micidiale efficacia ovunque esse siano state applicate.
I pool antimafia, la confisca dei beni, la protezione dei testimoni, l’abolizione del segreto bancario, la specializzazione delle polizie e l’unificazione degli spazi giuridici sono alla base della
Convenzione di Palermo e sono oggi il linguaggio comune delle polizie e dei pubblici ministeri di tutto il pianeta.
Concepire tutto ciò nella realtà di 30-40 anni addietro, quando ancora molti si chiedevano se la mafia esistesse davvero, e quando tutti gli altri paesi europei guardavano all’Italia come
l’ammalato cronico del continente, è equivalso ad una piccola rivoluzione. Diventata poi una medaglia del nostro paese. Medaglia pagata a caro prezzo. E uno dei prezzi più cari è stato proprio il sacrificio di Giovanni Falcone.
E la mafia? Come ha reagito Cosa Nostra al post-Capaci?
La risposta dello Stato alle stragi del ‘92 e il ricambio politico avviato da Mani Pulite hanno costretto la mafia dentro una posizione difensiva che dura tuttora. Cosa Nostra è riuscita a
sopravvivere alla grande offensiva del post-Capaci e post- Via d’ Amelio (l’assassinio di Paolo Borsellino), ma ha subito una sconfitta di storiche proporzioni.
Le mafie non sono scomparse, evvero, ed affliggono ancora larghe zone della Sicilia e dell’Italia del Sud. Ma sono state costrette a ridurre al minimo l’ uso della violenza, e ad inabissarsi nella società civile e nella politica regionale e comunale. I boss si sono integrati quasi ovunque nelle reti della corruzione politica dominate dai gattopardi locali.
Non sono più in grado di far cadere i governi, ma hanno moltiplicato le estorsioni, i racket ed il controllo delle risorse degli enti pubblici.
Queste attività non hanno però compensato la diminuzione delle entrate del mercato internazionale della droga e l’esclusione dai nuovi business mondiali. I fatturati criminali di oggi
sono una modesta frazione di quelli dell’epoca d’oro del malaffare.
Perché la mafia riacquisti quella sicurezza in se stessa necessaria per rientrare a pieno titolo nei piani alti del palazzo occorrono tre cose.
In primo luogo occorre una iniezione straordinaria di risorse paragonabile a quella ottenuta a metà degli anni 70 con il monopolio della rotta transatlantica dell’eroina. Ed è possibile che
l’occasione venga fornita dall’ iniezione di spesa pubblica post- COVID e dai fondi europei per la ricostruzione.
In secondo luogo occorre una spallata agli apparati investigativi antimafia che abbiamo costruito assieme a Falcone lungo gli anni 90. E non vedo segnali rilevanti in questa direzione.
Ma ciò che più conta è l’atteggiamento del governo centrale verso le mafie. I colpi subiti dalla mafia siciliana dopo il 1992 in poi sono stati quasi letali. La Commissione regionale e le
Commissioni provinciali di Cosa Nostra sono in disarmo da decenni. La pressione del popolo mafioso sulla società è rimasta pervasiva, ma non si è formata una nuova leadership. Una «testa» capace di ribaltare l’attuale subordinazione alla politica. Se dalla politica corrotta arrivassero nuovi segnali di incoraggiamento, Cosa Nostra potrebbe abbandonare il basso profilo e ritornare alla ribalta.
Se ciò avvenisse senza adeguata opposizione, vorrebbe dire che Capaci non ci ha insegnato niente.
nella foto il sociologo Pino ARLACCHI con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Fonte: L’Antidiplomatico