LA VERA STORIA DELLA MAXI TANGENTE ENIMONT / IL DEPISTAGGIO FIRMATO DI PIETRO

Rieccoci a don Tonino Di Pietro ed all’epica intervista da 7 pagine rilasciata all’inviata speciale – a Montenero di Bisaccia – dell’Espresso, Susanna Turco.

Nella parte finale salta fuori il Di Pietro Amerikano, e la inusuale frequentazione del consolato meneghino a stelle e strisce ben prima che scoppiasse Mani Pulite. La Stampa una decina d’anni fa ha ricostruito quella ragnatela di incontri ‘preparatori’. Il pm senza macchia e senza paura, infatti, si era più volte incontrato con il console Usa a Milano, Peter Sandler, al quale avrebbe addirittura raccontato in anticipo la sua intenzione di arrestare Bettino Craxi e Mario Chiesa.

La Voce ha più volte rammentato quelle stories, che puzzano lontano un miglio. Per la serie: Di Pietro era un burattino nelle mani degli Usa e della Cia. Nel precedente articolo lo abbiamo definito ‘burattinaio’: per il semplice motivo che se don Tonino era eterodiretto (dagli States), a sua volta impartiva ordini al pool (ed anche alle toghe romane), in perfetta intesa con il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.

 

INCONTRI E CENE DI “SERVIZIO”

La foto che ritrae Antonio Di Pietro alla famosa cena del 15 dicembre 1992 accanto a Bruno Contrada

Vediamo cosa racconta oggi ‘O Pm alla Turco sul tanto agognato arresto di Craxi e Chiesa: “E’ un’invenzione totale. Nel ’91 io Mario Chiesa nemmeno sapevo che esistesse. E’ vero che io stavo facendo delle indagini molto delicate, dal 1989, dal ’90, ma rispetto ad una realtà che conoscevano pure le pietre. Per me Craxi è uno dei tanti, lui la gira in modo politico inventandosi, facendo scrivere questa storia dei servizi, dossieraggi che non ci azzeccano nulla”.

Ma che razza di risposta è mai questa? Lui chi, quel Craxi morto vent’anni fa che non può certo rispondere?

E come mai Di Pietro non dice una sola parola, neanche mezza, circa gli inquietanti, frequenti incontri con il console Peter Sandler?

Ma c’è un altro buco nero. Il mistero di quella cena di Natale, tanto per fare quattro chiacchiere e scambiarsi gli auguri tra amiconi.

Ecco come la racconta don Tonino: “Ah già! Quella famosa cena di Natale al consolato dove c’era Bruno Contrada (che guarda caso verrà arrestato pochi giorni dopo, ndr), il capo dei servizi, c’era il responsabile dei servizi americani, il console americano, l’allora colonnello Leonardo Gallitelli”.

Ci mancavano solo i super capi del Pentagono e dell’Fbi.

Prosegue nel suo racconto alla Turco: “Cosa succede quel giorno? Per me quello era un pranzo natalizio in una pausa tra gli interrogatori. C’era un mare di gente e mi avevano messo al tavolo centrale, col console americano, francese e non so chi altro. Quindi quella foto che poi è girata nelle redazioni dei giornali sembra il pranzo del complottista. Ma escludo che quel pranzo sia stato fatto per fini complottisti. E, se pure lo fosse, certamente non col concorso mio e nemmeno con il concorso di Gallitelli”.

E, non contento, aggiunge: “Io non ho mai avuto a che fare con un solo agente segreto in vita mia”.

Siamo su ‘Scherzi a parte’?

Passiamo ad altri nodi che, man mano, vengono al pettine, anche grazie all’intervista-autogol. Che permette di alzare non pochi altarini.

 

LA SCENEGGIATA DI BRESCIA

Il fondatore (affondatore) di Italia dei Valori fa riferimento alla persecuzione giudiziarie (sic!) nei suoi confronti e il timore di un possibile rinvio a giudizio, se non addirittura di quel tintinnar di manette del quale gli uomini del pool erano molto esperti. Da qui la decisione – improvvisa – di gettare la toga sul banco, quando tutta l’Italia si chiede il perché.

Una sceneggiata, l’abbiamo definita ieri. In piena regola, rispettando in mondo perfetto tutti i canoni delle piece napoletane.

Sapeva bene, infatti, Di Pietro che ne sarebbe uscito a vele spiegate, o solo con qualche piccola ammaccatura. Al termine del breve percorso istruttorio, infatti, arriva la scontata sentenza del tribunale di Brescia che lo pone al riparo da ogni conseguenza, anche se le motivazioni sono un po’ pesantucce, il minimo sindacale. Quella sentenza leva le castagne dal fuoco sul fronte delle accuse da non poco, non ravvisando alcun profilo penale; lo censura solo sotto il profilo morale, deontologico, professionale. Come dire: qualunque altro sarebbe andato a processo, tu certo no.

Il libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato

Si trattava di fatti e capi d’accusa per qualunque professionista – figurarsi un magistrato – da novanta: come gli strani rapporti con l’avvocato Giuseppe Lucibello, i tanti regali ricevuti – spesso via Lucibello – dai suoi stessi inquisiti, i prestiti, le auto, gli appartamenti fittati con disinvoltura, di tutto e di più in una sequela di favori inimmaginabili per un pm senza macchia e senza paura e senza vergogna nel ricevere cadeau di quel tipo dai suoi stessi imputati!

Tutto ciò per Brescia è penalmente irrilevante, significativo solo sotto (l’inutile) profilo etico, deontologico, professionale.

E così Giustizia è fatta.

Nel profetico libro scritto 20 anni fa da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, “Corruzione ad Alta Velocità”, tutti quegli imbarazzanti episodi che hanno visto il pm Di Pietro come ‘protagonista’ sono dettagliati con dovizia di particolari.

Ne esce un quadro agghiacciante, del resto mai contestato dal Pm di Montenero di Bisaccia, che non ha neanche chiesto, agli autori, di rettificare parti di quel testo infuocato.

 

PACINI BATTAGLIA, L’UOMO A UN PASSO DA DIO

Un j’accuse potente come una bomba – quel libro edito da Koinè nel ’99 – e chissà perché mai attenzionato da alcun vero magistrato per far davvero luce sulla mole dei fatti narrati da Imposimato e Provvisionato.

Come, una su tutte, l’inchiesta taroccata sull’Alta Velocità (lo vedremo in dettaglio nella prossima puntata) e il ruolo giocato in tutta la Mani Pulite story da Francesco Pacini Battaglia, “l’Uomo a un passo da Dio” – come lo definì inquisitor Di Pietro – il super faccendiere che tutto sapeva della vicenda Enimont, la madre di tutte le Tangenti, dei segreti di TAV e di mezzo parastato in stra-odore di mafia e di corruzione.

A questo punto, non resta che riportare alcuni tra i più salienti passaggi che potete leggere in “Corruzione ad Alta Velocità”: rammentiamolo, scritto a quattro mani vent’anni suonati fa, un j’accuse che avrebbe dovuto far scoppiare la vera Tangentopoli.

Lorenzo Necci

Partiamo da Chicchi Pacini Battaglia, sul quale indaga Di Pietro a Milano, dopo essersi fatto trasferire altri fascicoli d’inchiesta sul faccendiere dalla procura di Roma (insieme a quelli dell’Alta velocità).

E da una società sotto i riflettori degli inquirenti, TPL.

Scrivono Imposimato e Provvisionato: “Responsabili della TPL sono Mario Maddaloni, presidente, e Leonello Sebasti e Pietro Tradino, amministratori delegati, tutti e tre molto legati a Pacini Battaglia nella cui banca (svizzera, ndr), la Karfinco, sono titolari di conti, oltre ad essere azionisti dello stesso istituto. (…) Tutto questo lo scoprirono i magistrati di Perugia. Ma perché, pur incappando, ben cinque anni prima, negli affari sporchi della TPL, Antonio Di Pietro e, con lui, Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti, attuale presidente della Lazio calcio, all’epoca amministratore delegato di Enimont e buon amico di Raul Gardini, aveva raccontato di aver ricevuto dalla TPL 5 miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. 2 miliardi – aveva riferito Cragnotti – li aveva tenuti per sé, 2 erano finiti a Gardini e l’ultimo a Necci, allora presidente di Enimont (Lorenzo, poi ai vertici di FS e promotore di Tav, ndr) e Pacini Battaglia”.

 

QUEL RITO AMBROSIANO

Un giochetto da ragazzi scoprire la combriccola con le mani nella marmellata. E invece cosa succede?

Sergio Cragnotti

Proseguono gli autori: “Anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come fosse un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel ‘rito ambrosiano’, quello officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare, ma anche a fare dei nomi e a fornire precisi riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, ‘come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite’. Lo stesso Di Pietro, quindi, avrebbe creduto a Pacini Battaglia, senza verificare ciò che aveva detto Cragnotti – tutte rivelazioni confermate anche da un altro imputato, Roberto Marziale – e cioè che a Necci era stata accreditata una somma da 1 milione e mezzo di franchi svizzeri sul conto intrattenuto presso la Karfinco”.

Ma sono ancora più precisi, su questi punti bollenti, Imposimato e Provvisionato: “In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Di Pietro, da pm a Milano, avesse favorito il banchiere (Pacini Battaglia, ndr), omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando, di fatto, personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria internazionale con la Svizzera che avrebbe invece consentito di scoprire che presso la Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili di Eni e di Tpl. Ma il gip di Brescia, Anna Di Martino, ha prosciolto Di Pietro da tutte le accuse con la formula ‘perché il fatto non sussiste’”.

Ai confini della realtà.

 

UN MARE DI DOMANDE (ANCORA) SENZA RISPOSTA

Non è certo finita qui. Perché gli interrogativi fioccano e si moltiplicano.

Gabriele Cagliari

Si chiedono gli autori di ‘Corruzione ad Alta Velocità’: “Come mai Di Pietro lasciò Pacini Battaglia libero? Non c’era per il faccendiere, fulcro di tutti gli imbrogli dell’Enimont, quel rischio d’inquinamento delle prove tanto spesso tirato in ballo per arrestare e tenere in galera tanti personaggi dallo spessore criminale decisamente inferiore a quello di Pacini? Rischio che l’ordinanza del tribunale di Milano del 1 dicembre 1997 e del gip di La Spezia e di Perugia hanno confermato? E’ solo una coincidenza che anche Pacini fosse difeso dal solito avvocato Peppino Lucibello, lo stesso legale per il quale i magistrati di Perugia chiederanno, senza però ottenerla, l’incompatibilità nella difesa del suo assistito? E come mai il cervello così carico di saggezza popolare del pm milanese non venne neppure sfiorato dall’idea di procedere ad una serie di confronti incrociati tra Cragnotti e Pacini, tra Cragnotti e Necci e tra Necci e Pacini? Perché Di Pietro lasciò che un calibro da novanta come Pacini venisse interrogato da Borrelli, che poco o nulla sapeva dei dettagli della vicenda di cui Cragnotti aveva parlato? Perché, guarda caso, proprio i nomi di Pacini, Necci e Cragnotti vennero stralciati dal processo Enimont? Perché in questa vicenda Di Pietro non ha usato quella sua personalissima tecnica, ampiamente collaudata, e cioè tenere dentro tutti: Cragnotti, reo confesso, Necci, chiamato in correità e Pacini anche lui chiamato in correità?”.

Interrogativi da brividi, ai quali sarebbe interessante ottenere risposte dal pm che ha scritto la storia di Mani pulite, invece di dover leggere le rispostucole alla genuflessa Susanna Turco, la super inviata a Montenero di Bisaccia per abbeverarsi alle fonti della Verità!

Imposimato va avanti come un trattore, come quelli che vengono utilizzati dai contadini nelle verdi campagne molisane.

“Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per suicidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicidio. Altri ancora – è il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) e, almeno a Milano, non l’hanno visto mai (il secondo)”.

Il materiale, su vari fronti, è super abbondante.

Quindi andremo avanti con la terza – non meno esplosiva – puntata.

2 pensieri riguardo “LA VERA STORIA DELLA MAXI TANGENTE ENIMONT / IL DEPISTAGGIO FIRMATO DI PIETRO”

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