Verità giudiziaria ancora lontana anni luce a 33 anni suonati dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Secondo oltraggio a due eroi che hanno sacrificato le loro vite per lottare contro la piovra mafiosa e, soprattutto, i suoi tentacolari, perversi rapporti con il mondo della politica e delle imprese, i veri tumori che hanno creato le metastasi capaci di devastare, in questi anni, il nostro Stato e le nostre Istituzioni, ormai ridotte in macerie.
Stato e Istituzioni che si sono addirittura resi protagonisti del colossale Depistaggio per le inchieste e i processi, addirittura quattro senza cavare un ragno da buco e anche molto peggio, per il massacro che costò la vita a Salvatore Borsellino e alla sua scorta. Come ha certificato il Borsellino quater che, però, non è riuscito a scovare i mandanti, rimasti regolarmente a volto coperto.
Una vergogna che più abominevole non si può e che celebra il funerale della Giustizia di casa nostra, totalmente incapace, nell‘ultimo trentennio, di venire a capo di un solo Mistero e/o Strage di Stato: proprio perché i responsabili sono intoccabili e la magistratura, troppo spesso e volentieri, è collusa e/o complice. Mosche bianche eroi come Borsellino e Falcone, gli Uomini dello Stato che volevano la giustizia a tutti costi: e proprio per questo DOVEVANO MORIRE.
Come ogni anno, nel modo che più rituale e stucchevole non si può, le commemorazioni pelose di uno Stato che si è man mano trasfigurato in un antistato, un simulacro o un fantoccio, se preferite, totalmente antitetico agli interessi dei suoi cittadini, sudditi e servi in una democrazia (sic) falsa, taroccata, di pura forma e nessuna sostanza. Una vergogna senza limiti e senza confini. E proprio – è il caso di dire – solo ai confini della realtà.
Ma cerchiamo di ricordare, nel modo più autentico possibile, i due eroi che non volevano esserlo affatto, perché si sentivano solo al servizio della Giustizia – quella vera – e della Memoria, quella di tante, troppe vittime della Mafia collusa con il potere politico-economico, il vero motore della devastante connection.
Rendendo omaggio all‘ultima inchiesta che Falcone e Borsellino avevano sul tavolo: una ‘bomba’, come si è poi rivelata, 500 chili di tritolo per Capaci e altrettanti per via D’Amelio.
Si trattava dell’inchiesta Mafia-Appalti, una super indagine sulle più grosse commesse di lavori pubblici degli ultimi anni, al centro il Treno ad Alta Velocità (TAV), proprio allora in fase di decollo. Venne affidata al ROS dei carabinieri, che lavorarono sodo e redassero in un anno di intenso lavoro, tutto il 1990, un ponderoso rapporto da ben 890 pagine in cui venivano dettagliati per filo e per segno, appalto per appalto, cifre, società, intrecci, referenti politici e mafiosi di una sfilza di sigle in corsa per gli appalti arcimiliardari. Ne emergeva uno spaccato sconvolgente, in cui venivano passati ai raggi x tutte le infiltrazioni mafiose in sigle apparentemente pulite, anche grandi imprese insospettabili del centro nord, oltre che ovviamente del sud: e, negli schemi, apparivano regolarmente tutti i padrini politici, big e ras della prima repubblica, DC e PSI ovviamente in pole position, ma anche le coop rosse al tavolo imbandito per spartirsi la torta dei mega appalti.
Basti pensare che Il solo TAV (appunto, il Treno ad Alta Velocità) partito nel 1989, in fase di progettazione finale, dalla ‘cifretta’’ di 29 mila miliardi di lire, nel corso di pochi anni lieviterà ad oltre 150 mila miliardi, come la Voce ha documentato in svariate inchieste degli anni ’90. E hanno messo nero su bianco nell’imperdibile ‘CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA’ i due autori e grandi firme della Voce per anni, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato. I quali – nel loro possente j’accuse pubblicato nel 1999 – misero nero su bianco tutti i depistaggi avvenuti sul fronte delle prime, fondamentali inchieste sul TAV.
Partirono infatti, a metà anni 90, due filoni d’inchiesta, uno a Roma ed uno a Milano. Il primo riguardava il versante politico-amministrativo, il secondo quello economico-finanziario. Nel volume viene perfettamente ricostruito il ‘metodo scientifico’ usato dall’allora pm di punta del pool meneghino, Antonio Di Pietro, per avocare a sé tutta la maxi indagine.
Sostenne, infatti, di aver tra le mani – eravano al termine della lunga era di Tangentopoli – un asso nella manica, l’Uomo a un passo da Dio, come don Tonino stesso lo definì. Si trattava di Francesco Pacini Battaglia detto Chicchi, faccendiere-banchiere italo svizzero il quale, secondo il pm senza macchia e senza paura, conosceva tutto nel mondo degli appalti che contano, a partire dai segreti della madre di tutte le tangenti, ENIMONT. Da tener presente che l’ex poliziotto molisano gestì anche un imputato del calibro di Raul Gardini: il quale, la mattina prima di essere interrogato dall‘inflessibile pm, pensò bene di scaricare un revolver alla sua tempia. Una dirty story sulla quale non è stata mai fatta luce.
Torniamo all’avocazione TAV. Proprio contando su quell‘asso nella manica, Di Pietro riuscì a far approdare alla procura milanese tutto il bollente fascicolo.
Ecco come si concluse la story, in due parole. La Fonte dei Miracoli si prosciugò in un baleno, l‘asso di bastoni si dimostrò ben presto un due di briscola, il fuoco d’artificio si rivelò in misero tric trac: e quel mitico Teste non raccontò un fico secco. Eppure il pm molisano era capace di far confessare anche chi non sapeva un cavolo, spremendolo al punto giusto. Un pugno di ferro usato con tanti imputati; invece, stavolta, magicamente trasformatosi in un guanto di velluto.
E ora, il gran Trucco di tutto il Depistaggio.
Il legale di fiducia nominato da Pacini Battaglia, infatti, era un avvocato del tutto sconosciuto a Milano, a bocca asciutta da processi di grido, appena sbarcato quasi con la valigia di cartone da Avellino, tal Giuseppe Lucibello: ma con un asso nella manica, continuando nella partita di briscola o di poker, se preferite. Era infatti – guarda caso – un grande amico, da anni, proprio del pm Di Pietro! Una strategia perfettamente, scientificamente studiata a tavolino.
“Mi hanno sbancato quei due”, rivelò al telefono – intercettato – il banchiere. Comodamente trasformato in un poco comprensibile “mi hanno sbiancato”, quando il pm venne processato e ovviamente assolto davanti al tribunale di Brescia per le combine con i legali delle controparti di Mani Pulite a botte delle più varie utilità, come auto, case, fitti extra lusso e via di questo passo.
In soldoni, la maxi inchiesta TAV va in cavalleria, sotto quintali di naftalina, tutto archiviato dall’ottimo Di Pietro che dopo pochi mesi abbandona la toga, nauseato. E si dà subito alla politica, in sella al cavallo Italia dei Valori che poi un bel giorno imploderà nel giro di poche ore: dopo un servizio dell’allora ‘Report’ griffato Milena Gabanelli e in buona parte basato su inchieste e reportage pubblicati nei due anni precedenti dalla Voce.
Ciliegina finale. Come mai quella pista MAFIA-APPALTI è stata sempre ignorata e oscurata, in sostanza mai realmente battuta?
Eppure, è stata più e più volte indicata con forza e coraggio dai figli di Borsellino, in particolare Fiammetta; nonché da Fabio Trizzino, legale della famiglia nel corso dei processi e marito dell’altra figlia, Lucia.
Misteri nei misteri.
Verrà mai fatta, un giorno, luce ‘giudiziaria’?
Vi ricordiamo che per leggere le decine e decine di inchieste pubblicate dalla Voce in questi anni, basta andare alla casella CERCA, che si trova in alto a destra della nostra home page e digitare PAOLO BORSELLINO per ritrovarne a iosa. E, soprattutto, per conservare e perpetuare la MEMORIA di fatti e misfatti.
Ecco, comunque, uno degli ultimi pezzi più significativi messi in rete dalla Voce. E’ dell’11 novembre 2022
‘MAFIA E APPALTI’ / LE AMNESIE DEL GIUDICE GUIDO LO FORTE
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