E’ un titolo forte, lo sappiamo. Ma viene il voltastomaco a vedere che si celebra pomposamente il 3 maggio, Giornata Internazionale per la Libertà Stampa, senza mai una volta, una sola volta, ricordare i tanti giornalisti caduti sotto la ghigliottina di una certa parte della magistratura italiana.
Ci sono tanti modi di morire per la libertà di stampa. Certo, ci inchiniamo di fronte ai colleghi sterminati durante i conflitti nei territori di guerra. O quelli fatti fuori da regimi dittatoriali, il cui simbolo resterà per sempre Anna Politkovskaja. Un tempo c’erano anche i giornalisti caduti per mano di mafia, come il mai dimenticato Giancarlo Siani. Era il tempo in cui anche i magistrati venivano eliminati per la loro fiera indipendenza, era il tempo in cui Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sacrificavano la loro vita per non aver ceduto alle minacce delle connection fra potere politico, potere economico e mafie.
Quel tempo è passato da oltre trent’anni. Ma quelle compagini oscure sono rimaste sempre al lavoro. Solo che per cancellare dalla faccia della terra – o dai loro posti di lavoro – magistrati e giornalisti non allineati, hanno scoperto un metodo semplice semplice: le calunnie, le azioni civili per diffamazione, le querele infondate, avvalorate da quei giudici o pm compiacenti che militano tra le fila della magistratura italiana.
Che bisogno ci sarebbe oggi del tritolo, quando basta un’accurata opera di delegittimazione mediatica e giudiziaria per allontanare quel magistrato che non si piega? Per i giornalisti, poi, è un giochetto da ragazzi. Spari una citazione milionaria, anche se va contro qualsiasi sacrosanto principio costituzionale, anche se è sfacciatamente contraria a quanto previsto dal Codice Penale in materia di diffamazione. Il metodo, nel tempo, è stato talmente raffinato da essere diventato praticamente una certezza. Se lo attacchi in sede civile, già in primo grado il giudice compiacente (puoi sceglierlo tu, basta depositare la citazione quando arriva il suo turno) lo massacra con una sentenza provvisoriamente esecutiva, cui seguiranno pignoramenti devastanti che sottraggono a lui e alla sua famiglia anche l’osso del collo. Se lo attacchi in sede penale, l'”amico” giudice sarà sempre lì, prontissimo, a comminargli pure una consistente “provvisionale”, quella che in genere viene concessa solo in due casi: o per gli artefici dei più sanguinosi omicidi. O per quei giornalisti che devono essere eliminati.
Qui alla Voce di simili metodi nazisti non ce ne siamo fatti mancare nemmeno uno. Perciò, quando vediamo tanti colleghi sfilare in piazza per festeggiare il 3 maggio, senza mai dire una sola parola contro la dittatura giudiziaria che asfissia questo Paese, che ha già cancellato di fatto qualsiasi forma di libertà di stampa, a noi e ai tanti come noi che hanno provato il gelo di queste lame, che vivono ormai nell’oscurità una vita fatta di stenti, che non hanno davvero niente da festeggiare, viene solo da dire una parola: basta!
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