Possibile contestazione: ma come, con i disastri dell’umanità, in questo esecrabile esordio del terzo millennio, lo spazio di scrittura di Facebook occupato a dismisura dal ‘caso Pino Insegno’? Critica sacrosanta ma con riserva, per un gigantesco perché. L’Articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. A garantire il rispetto di questo grandioso capitolo della Carta Costituzionale, la lotta operaia del postfascismo ha scritto la pagina rivoluzionarie dello statuto dei lavoratori. “L’articolo 18 tutela i lavoratori dipendenti in caso di licenziamento illegittimo, ingiusto e discriminatorio”. Parzialmente modificato dalla Fornero (2012) è stato abrogato due anni più tardi dal governo del ‘demolitore’ Renzi (i vertici del Pd non hanno mai giustificato il perché di Renzi segretario dem e presidente del consiglio) e l’Italia è arretrata socialmente di decenni. Se n’è avvantaggiato il mondo dell’imprenditoria e nello specifico il vertice Rai, che ha potuto impunemente ‘epurare’ artisti e giornalisti scomodi, disorganici rispetto ai partiti di governo.
Pino Insegno, attore, doppiatore, comico, conduttore radiofonico e televisivo: ampie pagine di Wikipedia raccontano la carriera intensa, senza un attimo di pausa. Tanto teatro, cinema, radio, televisione (più flop che altro) e relativi guadagni. Come l’attore e regista Barbareschi, dichiaratamente di destra, ha smesso di piagnucolare per presunte discriminazioni della Rai che lo avrebbe emarginato e trasforma la protesta in richiesta all’amica Meloni di essere risarcito. Dimenticato rapidamente il flop di Insegno, conduttore del ‘Mercante in fiera’, in nome dell’amicizia e della coincidenza politica, la Rai della premier lo ingaggia. Subentra a Liorni, al game show Reazione a catena. Insegno non ne ricava granché sul piano dell’empatia con il popolo dei telespettatori e dei numeri dell’audience. La critica non lo assolve e a Viale Mazzini sentenziano che ne risentono anche gli ascolti del Tg1, perché ‘Reazione a Catena’ non assolve al compito di traino. Evidente, il melonismo di rapina del servizio pubblico televisivo finge estraneità all’odioso, monolitico fanatismo del ‘suo’ Tg1, della redazione, costretta al ruolo di ‘velina’ di Fratelli d’Italia, che nell’edizione di massimo ascolto, delle 20, ignora quanto accade nel mondo per fare spazio all’intervista di venti minuti regalata a Sangiuliano, condotta dal direttore in persona.
Fino a quell’exploit, Gian Marco Chiocci, non era mai comparso in video. Si è imbufalito con Insegno, altro meloniano di ferro, amato dalle sorelle Meloni, per i bassi ascolti, di Reazione a catena. Viale Mazzini e padrini occupanti, sottovalutato l’“obbedisco” alla richiesta di offrire a Sangiuliano la massima visibilità per il lacrimevole pentimento, di aver cornificato la moglie. Il ministro dell’incultura, ha evitato con le dimissioni di essere licenziato, inevitabile the end di una tragicomica storia politico-sentimentale, ma non è così azzardata l’ipotesi che se l’articolo 18 fosse ancora in vigore, Genny sarebbe ancora in Rai e ministro. La cultura, certo, non se avvantaggerebbe. L’azienda, preda della destra pigliatutto, per liberarsi con il licenziamento di Sangiuliano ed eventualmente di Insegno, dovrebbe fare i conti con la magistratura e il sindacato. Non c’è che da sperare nel ravvedimento della politica che renda di nuovo operativo l’articolo che tutela i lavoratori.
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