BRICS, l’associazione ‘alternativa’ al blocco occidentale, a tutto gas e con un ‘pienone’ per le richieste di adesione, che continuano a fioccare.
Ed è alle porte il prossimo, annuale incontro fissato per ottobre in Russia.
Proprio mentre i paesi europei arrancano, quasi agonizzano e mostrano i segni di una profondissima crisi economica e sociale, oltre che politica of course.
Come dimostrano in modo emblematico i casi – che più eclatanti non si può – della locomotiva Germania ferma ai box, con lo storico colosso ‘Volkswagen’ costretto a chiudere alcuni suoi stabilimenti e una disoccupazione crescente.
Quello della Francia, che non riesce ad uscire dal tunnel del dopo voto, con un funambolico Emmanuel Macron, il quale si affida addirittura ad un burosauro gollista di destra per formare il nuovo governo, quando dalle urne è uscito’ vincente il ‘Nuovo Fronte Popolare’ di sinistra.
Per non parlare della drammatica situazione italiana, nascosta dal governo sfascista narcotizzando i cittadini sotto una valanga di vomitevoli sceneggiate per una dozzina di giorni (e non è certo finita qui), da paese del settimo mondo. Poveri noi, come siamo ridotti ai minimi termini…
Ai confini della realtà.
Torniamo ai BRICS. Acronimo di Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica, ossia le nazioni che vi hanno dato vita: i primi quattro quasi vent’anni fa, nel 2006, e poi nel 2010 si è aggiunto il Sudafrica. Una sigla che non ha solo una connotazione politica, ma soprattutto economico-commerciale, per garantire una sempre maggior collaborazione nell’interscambio, per accrescere i livelli di export, e, soprattutto ‘fra pari’, come sottolineano sempre i paesi promotori.
Esattamente dieci anni fa è nato lo strumento finanziario per supportare in modo concreto le iniziative dei partner, la ‘Nuova Banca di Sviluppo’, sede a Shangai, oggi presieduta da Dilma Rousseff, ex presidente del Brasile e per anni braccio destro dell’attuale numero uno carioca, Ignacio Lula Da Silva.
Appena insediata due anni e mezzo fa, Roussef ha assicurato una decisa politica tesa alla de-dollarizzazione, per fare in modo che i paesi ‘emergenti’ – quello che un tempo veniva definito terzo mondo – possano progressivamente liberarsi dalla schiavitù della dipendenza (e quasi sempre dal giogo) del Padrone a stelle e strisce.
Un anno fa, il 22 agosto, in occasione del 15° vertice che si è tenuto a Johannesburgh, la capitale sudafricana, hanno presentato richiesta di adesione ai BRICS addirittura 22 paesi, ecco il lungo elenco: Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Bangladesh, Bahrein, Bielorussia, Bolivia, Cuba, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Honduras, Indonesia, Iran, Kazakistan, Kuwait, Nigeria, Palestina, Senegal, Thailandia, Venezuela e Vietnam.
Pochi mesi dopo, il 1° gennaio 2024, sono entrati ufficialmente tra i BRICS Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti. Secondo indiscrezioni è prossimo l’ingresso dell’Algeria.
Ha fatto rumore l’ingresso degli Emirati, storicamente filoamericani (da anni conducono insieme il conflitto in Yemen).
Ma ora, soprattutto, fa rumore la più che probabile adesione della Turchia, un paese che fa parte della NATO!
Sarà il piatto forte del prossimo vertice che si terrà nella due giorni, dal 22 al 24 ottobre, a Kazan, in Russia. Ed al quale prenderà parte – lo ha appena comunicato il portavoce Omer Celik – il neo presidente dell’Iran, il ‘moderato’ Massoud Pezeshkian.
Ma affrontiamo il caso-Turchia. Paese che, come noto, fa parte dell’Alleanza Atlantica a pieno titolo, ma non della UE, che fino ad oggi non ne ha accolto la richiesta di adesione: circostanza che ha sempre fatto irritare il suo capo supremo, Recep Erdogan. Il quale, per tutta risposta, non solo ha appena chiesto il visto d’ingresso per i BRICS, ma è già entrato a far parte della ‘Organizzazione per la cooperazione di Shangai’.
Secondo ‘Bloomberg’, l’inossidabile numero uno di Ankara vuol sempre più accreditarsi come vero ago della bilancia nei rapporti ‘forti’ Est-Ovest, “un player globale a tutto campo e a 360 gradi”.
In particolare, sul fronte orientale, trasformando la Turchia in una super Hub del gas proveniente da Russia e Asia centrale; ma anche come snodo fondamentale per il transito e l’export di auto elettrice prodotte a Pechino per cui far valere gli accordi doganali UE.
Un vero miracolo di equilibrismo: diplomatico, politico, economico.
In perfetta sintonia con il motto al quale Erdogan si ispira: “E’ sempre meglio mangiare a due matrimoni, quando si ha la possibilità di parteciparvi”.
Del resto, s’è reso protagonista diverse volte sul palcoscenico dei due conflitti che agitano il mondo.
Sul versante ucraino, Erdogan si è spesso proposto come super-mediatore, l’unico in grado – a suo vedere – di far sedere allo stesso tavolo gli inconciliabili Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky.
Sul fronte palestinese è molto più tranchant, avendo accusato a più riprese Bibi Netanyahu di genocidio di un popolo inerme, chiedendo che la Corte Penale Internazionale dell’Aja si svegli dal letargo e intervenga.
E finiamo con le parole proprio di Putin, pubblicate da ‘La Presse’ in un reportage del 5 settembre che titola “Putin: oltre 30 paesi pronti ad aderire o cooperare”, ai Brics. “Amplieremo i legami del nostro Paese con partner, amici, con Stati e aziende interessate ad una cooperazione affidabile, a lungo termine e reciprocamente vantaggiosa; e quindi continueremo a rafforzare le posizioni russe nel mondo”.
Per saperne di più sui BRICS, potete andare sul sito della ‘Voce’, e alla casella CERCA che si trova in alto a destra della nostra home page, digitare BRICS.
Comunque, vi proponiamo la lettura di un pezzo messo in rete da ‘Come don Chisciotte’ il 7 settembre, titolato La Turchia chiede di unirsi ai Brics. E ora che succederà?
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