Simone Isaia è quel senzatetto di 32 anni accusato di incendio di un bene culturale, per aver dato fuoco al cumulo di stracci della Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto. L’opera era stata collocata dall’amministrazione comunale di Napoli in piazza del Municipio … senza alcun tipo di protezione. La condanna a sei anni di reclusione e 4mila euro di multa è stata comminata dal giudice del processo celebrato con rito abbreviato e la pena carceraria è stata ridotta di un terzo in virtù rito abbreviato. Ora dovrà tornare in carcere per scontare ancora quattro anni di reclusione perché il giudice non ha concesso l’incapacità di intendere e volere in virtù della evidente patologia psichiatrica di cui Simone è affetto. A nulla sono valse le valutazioni cliniche di esperti e consulenti coinvolti nel processo che hanno evidenziato i sintomi deliranti manifestati dall’imputato. Simone ha dichiarato di avere agito spinto da voci che gli parlavano nella testa ordinandogli di distruggere quel mucchio di stracci, brutta metafora della povertà che costituiva offesa per i poveri e per quelli come lui. Isaia era stato immediatamente individuato e arrestato. Portato prima nel carcere di Poggioreale poi agli arresti domiciliari presso una comunità di Salerno che nel frattempo si era resa disponibile. Ma dopo la sentenza di condanna ora rischia seriamente di tornare in carcere. Il carcere, retaggio dei vecchi manicomi che ben conosceva, sarebbe certamente l’ultimo luogo idoneo ad accoglierlo.
Una petizione per la sua liberazione è stata lanciata in rete ed ha raccolto, sino ad oggi, migliaia di firme. Quella petizione richiede per Simone il riconoscimento della sua patologia psichiatrica e la conseguente dichiarazione di non imputabilità per incapacità di intendere e volere.
Lo slogan lanciato con quella petizione circola in rete dall’agosto 2023, lanciata pochi giorni dopo l’incendio. Lo slogan che l’accompagna è molto semplice nella sua chiarezza “Simone Isaia ha bisogno di essere curato, non di andare in carcere”.
Si ritiene infatti che la condanna sia stata smisurata e la pena comminata pesante e insostenibile per una persona psichicamente fragile, ancorché incensurata.
Le richieste dei firmatari della petizione potrebbero possono sintetizzate in cinque punti nei quali si chiede:
- che sia revocata la misura cautelare in carcere.
- che gli sia garantito un appropriato percorso di cure psichiatriche nell’ambito di una comunità terapeutica.
- che siano coinvolti anche i servizi sociali nel suo percorso di cure per poter fornire progetti aggiuntivi di reinserimento sociale e per acquisire competenze lavorative.
- che gli sia offerta la possibilità di svolgere lavori socialmente utili, finalizzati al suo percorso di reinserimento sociale da persona autonoma. Ciò per consentirgli di riannodare i fili della sua vita e per riprendere un cammino da persona dedita al lavoro, alla realizzazione dei suoi sogni, all’amicizia e all’amore di coloro che ancora tengono a lui.
Infine, la petizione chiede alle autorità
- che facciano chiarezza sulle motivazioni che hanno causato che un’opera esposta al pubblico – e ufficialmente dichiarata ignifuga – sia bruciata facilmente e in pochi minuti.
Questa mobilitazione oltre ad essere un’iniziativa di solidarietà per Simone, si propone come una riflessione sulla condizione delle nostre carceri, generalmente sovraffollate e prive della possibilità di fornire cure adeguate alle persone fragili o disabili e offrire percorsi riabilitativi, con scarsa attenzione (come del resto accade anche nel sistema sanitario) ai progetti di addestramento professionale e di reinserimento lavorativo. Insomma, senza perseguire l’obiettivo di sviluppare una sensibilità civica o garantire condizioni civili di vita.
La vicenda di Simone Isaia ci dice molto della sufficienza con cui vengono trattate le persone con un disturbo psichiatrico in carcere … ma anche fuori. E pensare che dal 2014, sulla scia della chiusura dei manicomi civili del 1978, erano stati definitivamente chiusi anche i Manicomi Giudiziari, sostituiti da strutture più piccole, collocate vicine ai luoghi di provenienza dei pazienti e concepite per garantire la dovuta attenzione anche alle cure e alla riabilitazione. E questo proprio per quei casi come quello di Simone.
Ma questa è un’altra storia. È una storia di ritardi e di politiche di abbandono.
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