Allarme sismico nell’area flegrea, nell’area occidentale di Napoli.
A lanciare l’ultimo sos le preoccupate e preoccupanti parole pronunciate dal presidente dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Carlo Doglioni, nel corso della recentissima audizione davanti alla Commissione Ambiente della Camera.
Il numero uno dell’INGV ha delineato due scenari possibili, uno a tinte più leggere, l’altro a tinte che più fosche non si può.
Partiamo dal primo, quello meno allarmante. Si tratterebbe della ripresa, ormai in atto da parecchio tempo, di quel ‘bradisisma’ che caratterizzò la stessa area trent’anni fa, tra il 1982 e il 1983 e che portò all’evacuazione di una parte di Pozzuoli e alla realizzazione, in fretta e furia, di ‘Monteruscello’, dove vennero sistemati (a vita) tutti gli sfollati, diverse migliaia. E del ‘giallo Monteruscello’ parliamo tra poco.
Lo scenario più critico è invece paragonabile a quello che si verificò più di 500 anni fa, con una tremenda eruzione che provocò la ‘nascita’ del Monte Nuovo (circa 130 metri di altezza) nel 1583. “Nel caso di un’eruzione – sono le parole di Doglioni – non sappiamo né quando, né dove potrebbe avvenire, e anche se avvenisse in misura più limitata provocherebbe un forte disagio sociale”.
E ha aggiunto: “In ogni caso è impossibile pensare che i Campi Flegrei si possano spegnere, perché sono un vulcano”.
Ancora: “E’ in corso, anche in queste ore, un altro sciame sismico, ieri abbiamo avuto l’evento più forte. Il bradisismo si è riattivato più di dieci anni fa, solo che la velocità con cui il suolo si sta innalzando è in sensibile aumento. E questa velocità di innalzamento produce la sismicità che conosciamo. Al momento, per quanto ne sappiamo, il magma è ad una profondità di oltre 5-6 chilometri, quindi ben distante dalla superficie. Anche se, nel caso dovesse trovare improvvise vie di fuga per una risalita, i tempi (di evacuazione, ndr) sarebbero estremamente rapidi, nell’ordine delle ore”.
Sonni, dunque, poco sereni nei prossimi tempi per la popolazione napoletana, ed in particolare per quella flegrea.
Torniamo, adesso, a quanto evocato da Doglioni con il bradisismo d’inizio anni ’80.
La ‘Voce’ ne scrisse più volte, realizzando non poche cover story, riprese anche dalla stampa nazionale (emblematica un’intera paginata de ‘La Repubblica’ di allora, un signor quotidiano). Ma in particolare per quanto riguardava la gestione di quell’emergenza e, soprattutto, per la scellerata progettazione e realizzazione di quel mostro urbanistico chiamato ‘Monteruscello’: realizzato, peraltro, in piena zona ‘rossa’ (quindi altamente ‘sismica’) e per di più ad altissimo valore archeologico. Il peggio del peggio.
Quell’emergenza – documentò allora la Voce, intervistando tra l’altro il maggior vulcanologo partenopeo di allora, Giuseppe Luongo, direttore dell’Osservatorio Vesuviano– fu letteralmente ‘taroccata’. E cioè ingigantita, resa molto più terrificante di quanto in realtà non fosse, per un preciso obiettivo: farsi recapitare dallo Stato un vagone di miliardi da spartire tra correnti di partito, imprese di riferimento e sigle di camorra, queste ultime impegnate in movimento terra, forniture di calcestruzzo e nei già allora rigogliosi subappalti.
Una grande torta da spartire fra i 3 convitati di pietra: come era successo solo qualche anno prima, nel 1980, con il maxi appalto del dopo terremoto e la ricostruzione (la bellezza di 65 mili miliardi di vecchie lire, cifra poi lievitata di anno in anno a dismisura), e come succederà poi, proprio a inizio anni ’90, con il Treno ad Alta Velocità, il famigerato TAV di cui abbiamo scritto proprio nei giorni scorsi.
Ebbene, quella di Monteruscello doveva essere la classica ‘ciliegina sulla torta’. La Voceintervistò anche un ingegnere della Protezione civile, Ennio Magistrelli, che aprì un vero e proprio vaso di Pandora, poi concretizzatosi in un esposto che diede il via ad una maxi inchiesta della Procura di Napoli.
Il ministro della Protezione civile, all’epoca, era il DC Enzo Scotti, il gran ‘regista’ dell’operazione Monteruscello in compagnia dell’allora preside della facoltà di Architettura a Napoli, il PCI (sic) Uberto Siola.
Rammentiamo le parole del coraggioso pm, impegnato nelle indagini, Luigi Gay, che intervistato, appunto, da Repubblica disse: “E’ un mix davvero esplosivo per gli interessi in ballo. Per ricostruire le trame, leggete l’inchiesta pubblicata sulla Voce della Campania”, come allora, negli anni ’80, ’90 e inizio 2000 si chiamava la vecchia Voce fondata negli anni ’70 dal PCI e diretta nel 1979 da Michele Santoro (poi, dal 2007, è diventata ‘Voce delle Voci’ per la sua diffusione su tutto il territorio nazionale).
Ebbene, tre pm coraggiosi, ossia Franco Roberti (poi diventato procuratore capo a Salerno e quindi Procuratore Nazionale Antimafia), Paolo Mancuso (quindi andato a dirigere le procure di Nola e Santa Maria Capua Vetere) e Gay (passato al vertice della procura potentina) scoperchiarono quel vaso di Pandora che era una vera Tangentopoli ante litteram, e stiamo parlando del 1984.
Perché nell’esplosivo mix politico-affaristico-camorristico c’erano dentro fino al collo imprese di caratura nazionale, come per fare un solo esempio la fiorentina ‘Pontello Costruzioni’ (che faceva capo agli allora padroni della Fiorentina calcio); grosse aziende mattonare partenopee, come l’ICLA tanto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino; e sigle di camorra, anche stavolta, per fare un solo caso, la ‘Sorrentino Costruzioni Generali’ che faceva capo ad un dinasty di rispetto, vero trait d’union tra la vecchia NCO di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia griffata Carmine Alfieri, l’allora emergente boss del Nolano.
E la Voce, con un autentico scoop, riuscì a documentare i rapporti d’affari tra ‘O Ministro e i fratelli Sorrentino. Sia attraverso una lettera di raccomandazione, scoperta tra una montagna di carte all’archivio del tribunale di Napoli, firmata da Pomicino a favore di uno dei fratelli del clan, Alessandro (poi ucciso in un regolamento di conti tra clan); sia addirittura la compravendita di un lussuoso appartamento a Posillipo, la collina chic di Napoli, passato anche per le mani di un altro pezzo da novanta della DC di allora, Antonio Gava, e il bancarottiere amico degli Zaza, al secolo Ninì Grappone. Un bel poker d’assi!
Ma quella maxi inchiesta su tutte le connection di Monteruscello non poteva certo svilupparsi: sarebbe stata più esplosiva di qualsiasi eruzione!
E per questo, l’allora procuratore capo di Napoli, Alfredo Sant’Elia, dopo aver aspramente redarguito i tre pm troppo ficcanaso, avocò a sé l’inchiesta, per poi subito archiviarla.
E così la Tangentopoli partenopea non potè avere il suo naturale ‘sfogo’ giudiziario, che avrebbe anticipato di gran lunga quella milanese: peraltro ‘taroccata’, perché ‘guidata’ dal super pm dell’epoca, Antonio Di Pietro, che prendeva ordini dalla CIA!, come la Voce ha più volte dettagliato.
Insomma, eruzioni sempre pilotate.
E regolarmente ‘a orologeria’…
LINK VOCE
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