LA RIVOLTA FRANCESE, I PROBLEMI ITALIANI

Il problema della integrazione interraziale è stato affrontato bene solo 2000 anni fa quando i romani con una politica di integrazione e di tolleranza per le culture locali, le religioni e le tradizioni hanno tenuto l’impero in piedi per molti secoli. Invece oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello assimilazionista francese. Giorni e giorni di una furiosa guerriglia urbana causata dall’assassinio a sangue freddo da parte della polizia di Nahel, un giovane “francese”. Quel giovane era però impropriamente definito “immigrato di seconda generazione”, ma era un ragazzo nato e cresciuto in Francia. Quest’orribile termine significa veramente poco, se non il voler attribuire un’etichetta stigmatizzante a migliaia di cittadini francesi. Un paese, appunto, che per secoli è stato un avido paese coloniale e che ha scelto di integrare nei propri confini quei cittadini che provenivano dai paesi della sua sfera di influenza. Lo facevano fidandosi di una promessa, evidentemente falsa, di accoglienza risarcitoria nel paese che prometteva di integrarli e rispettarli, considerandoli propri connazionali. La Francia aveva chiesto a questi immigrati un adattamento totale. Ma è stato veramente così? La storia ci ha detto che quel modello di integrazione è fallito perché imposto senza lasciare spazi alle diversità, anzi creando nelle periferie ghetti abitati da esclusi.

E non è andata poi tanto meglio al modello multiculturalista anglosassone che ha creato ghetti, forse meno violenti e marginalizzati, ma che hanno lasciato ad una notevole distanza quegli immigrati dall’alto della notevole supponenza britannica.

Oggi persino Giorgia Meloni ha criticato le violenze sugli immigrati, proponendo una terza via più inclusiva … ma mai praticata.

“Solo una immigrazione gestita e regolare può generare integrazione – ha detto – gli incidenti in Francia coinvolgono giovanissimi immigrati di seconda e terza generazione, dopo la morte, per mano di un poliziotto, di un ragazzino ucciso a un posto di blocco. In realtà – ha continuato – a guardare il modello francese, il problema non è l’immigrazione irregolare, quanto proprio la via che ha scelto la Francia per gestire l’immigrazione dalle sue stesse colonie”. In sostanza è stato come dire “se vuoi stare con noi, in Francia, non hai altra scelta che diventare esattamente come noi”.

Ma perché non ha funzionato? A sentire gli esperti, come ha spiegato in un’intervista all’HuffPost il professor Fabio Franceschi, docente di diritto all’Università Sapienza di Roma “… il fallimento reiterato di quel modello ha ampiamente dimostrato di non essere affidabile né idoneo a integrare gli immigrati. Perché è un approccio che persegue l’omogeneità, in tutti i campi. Non lascia posto alla diversità nella sfera pubblica”.Un atteggiamento che evidentemente rischia di alimentare rabbia e violenza e di provocare le pericolose estremizzazioni a cui abbiamo assistito.

Il modello assimilazionista francese è stato contestato anche perché troppo orientato alla coartazione. È infatti proprio in base a questa concezione che si pretende, in pieno stile coloniale, che l’immigrato si adatti in tutto e per tutto alla società che lo ospita. Ciò comporta da parte loro uno sforzo enorme. Non si dovrebbero mai dimenticare i riferimenti culturali, i principi, la religione, la lingua. Questi, infatti, possono essere così diversi da risultare incompatibili. Anzi è ampiamente provato che questo tipo di approccio ottiene, in genere, il risultato di rafforzare un reattivo legame culturale con le proprie radici, accentuando tutte le differenze con il paese ospitante. L’unico vantaggio, per gli immigranti da paesi ex coloniali, è stato quello di ottenere velocemente la cittadinanza.

Ma attenzione. Qui parliamo di seconde e terze generazioni, di giovani, cioè, nati e cresciuti nel paese che li ospita ma dal quale non si sentono accolti pienamente. La violenza che la polizia manifesta continuamente nei loro confronti lo dimostra ampiamente. Pensate inoltre che la raccolta fondi per assistere legalmente l’agente che ha sparato ha ampiamente surclassato i fondi raccolti per la famiglia del giovane assassinato. Ciò dimostra che i sentimenti di rifiuto nei confronti di questa parte della popolazione sono ampiamente diffusi anche oltre agli agenti di polizia, ma straripano poi alimentando la feroce propaganda dell’estrema destra di Marine Le Pen. Riferimento in Europa di Salvini e Meloni.

In Italia si guarda ad un approccio di tipo “cattolico e neo-assimilazionista”, che contempla percorsi di formazione che puntano al trasferimento della cultura locale senza negare i valori della cultura di origine.

 

Periferie in Francia

È chiaro che comunque, se sei figlio di immigrati, anche se sei integrato continui a percepirti come un cittadino di serie B. Ciò porta inevitabilmente a una forma di emarginazione sociale, economica, e all’essere confinato in ghetti (o, in Francia, in una banlieue). Queste diventano poi delle vere e proprie bombe ad orologeria, pronte a esplodere alla prima occasione.

Nel peggiore dei casi assistiamo a quelle esplosioni di violenza che portano questi giovani figli di immigrati a scendere in piazza per distruggere tutti i simboli del consumismo. E quindi a non integrarsi mai. Anzi a vivere un sentimento di nostalgia per un paese che non hanno mai conosciuto e che diventa un pericoloso terreno di cultura su facilmente attecchisce persino la propaganda islamica di tipo terroristico.

Non è certo un caso se la gran parte degli attentati fatti in Francia, in Belgio e negli altri Paesi dell’Europa centrale negli anni scorsi non sono stati compiuti da persone provenienti da altri paesi, ma da persone che avevano la cittadinanza del luogo.

In Italia non è ancora a questi livelli, ma la situazione potrebbe precipitare velocemente portando a una rapida omologazione.

Ma esiste una alternativa credibile al modello assimilazionista? Sì, è la nostra versione di multiculturalismo. Quella che tende a costruire un mondo colorato, solidale, fatto di tante diverse identità, non necessariamente in conflitto tra loro. Come accade per esempio nel mondo dello sport, nel quale tanti atleti di colore, calciano un pallone o corrono per i nostri colori e sono regolarmente ammirati.

Questo approccio consiste nel considerare la diversità un valore, da inglobare per la parte compatibile con il sistema di funzionamento democratico del paese di accoglienza.

Certo non urlando all’invasione.

 

Walter Di Munzio è psichiatra e pubblicista


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