Su cosa gira il mappamondo degli sport in ogni latitudine e longitudine della Terra? Facile: il frenetico, vorticoso frullare d’ali che sposta miliardi di dollari, euro, yen, rubli, rupie. C’è un intrinseco, collettivo fondersi di famelicità nell’accaparramento delle fette di ‘torta’ che calcio, basket, tennis, sci, ciclismo, atletica, propongono nell’età moderna.
Quanto distano gli sport del terzo millennio da Olimpia, dal calcio primordiale di Vichinghi, Persiani, Egizi eAssiri, dal loro gioco con la palla? Quella degli Eschimesi era un involucro di pelle di foca riempito di muschio e pelliccia, degli hawaiani era rivestita da tessuto, foglie, dei figiani di uva. Gli aborigeni australiani utilizzavano lo scroto dei canguri imbottito di erba.
L’origine del calcio è incerta. Attraversa più epoche e ha radici in tutti i continenti, ma è comunque antica, distante anni luce dal football moderno. Il basket è frutto dell’intuizione di James Nausmith. Springfield, Usa, 1891 canestri primordiali nelle periferie della Grande Mela. Tra le ‘divertenti’ regole dell’epoca: ‘Il gioco è praticato con un pallone rotondo, che può essere toccato esclusivamente con le mani. Il goal (!) è posizionato orizzontalmente, in alto. Nulla di paragonabile all’impero dell’odierna Nba, del professionismo grondante milioni di dollari.
I giochi di Olimpia, tempio dello sport sano, della competizione sportiva per atleti dilettanti, nascono ad Atene nel lontanissimo 776 avanti Cristo per rendere omaggio agli dei. Il the end nel 393 d.C. voluto dall’imperatore Teodosio. Alla fine del diciannovesimo secolo li ripropone il barone De Coubertin (“l’importante è partecipare”), prima Olimpiade dell’era moderna ad Atene nel 1896. Nel 1924 è estesa agli sport invernali, poi alle Paralimpiadi per disabili. Nel nostro tempo, scandito dal dio denaro, i Giochi non hanno confermato il principio del dilettantismo. È il calcio a dominare l’inedito del business che avvolge lo sport. Esemplari i casi del Psg, ‘comprato’ dai nababbi petroliferi del Qatar, dei club inglesi, spagnoli tedeschi, inglobati da Emiri, straricchi americani, oligarghi russi (Chelsea), capitalisti cinesi.
L’Italia non è estranea al fenomeno. L’ultima invasione si deve al costruttore australiano di origini italiane Pelligra, interessato, in Sicilia, a speculare con l’acquisizione del Centro sportivo del Grifo. Ha investito generosamente per ‘comprare’ il Catania calcio, finito in serie D, forse anche il Varese basket, con relativo palazzetto.
Il clou dell’immigrazione di lusso nel pianeta italiano del calcio tocca sette società di serie A del nostro campionato (fonte la Repubblica): l’Atalanta, 118 milioni, Pagliuca, USA, 46% del club. Il Bologna, 247 milioni Josey Saputo, Usa, 100%. La Fiorentina, Commisso, Usa 472 milioni, 100%. L’Inter, 772 milioni, Zhang, Cina, 68%. Il Milan, 1.200 milioni, RedBird, USA, 99,9%. La Roma, 713 milioni, Friedkin, USA, 88%. Lo Spezia Platek, USA, 49 milioni, 100%.
I ‘vampiri’ non risparmiano neppure le squadre delle serie minori, nella prospettiva di estendere gli investimenti a territori, nuovi stadi, alberghi, negozi, servizi, attività connesse. Il Napoli, per ora, ne è fuori, ma indiscrezioni dell’ultim’ora raccontano di possibili partnership del Napoli calcio, (bilancio relativamente in rosso, responsabile la pandemia Covid) con investitori americani.
Ancora ha senso il campanilismo, il tifo territoriale per la squadra del cuore che schiera undici giocatori di altre città e nazioni, gestita da Paperoni stranieri?
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