Più che evidente, è lapalissiana l’imperfetta democrazia italiana. Somiglia a un ‘giro, giro tondo quant’è brutto il mondo’ della politica inquinata dalla partitocrazia. Gli appetiti dei mestieranti che l’abitano hanno radici nel dilettantismo allo sbaraglio della maggior parte dei disonorevoli parlamentari che brigano per occupare uno scanno di Montecitorio, di Palazzo Madama, garanzia di vitalizio per una vecchiaia di agi, di prebende extra agguantate durante lo status di rappresentanti del popolo. Certo non mancano le eccezioni, ma sono ininfluenti, non modificano sostanzialmente la sentenza di inadeguatezza generale. Si gioca sporco pur di mettere in carniere presenze nella cabina di comando: agguati, complotti, sabotaggi, salti in direzioni tra loro opposte, agevolati dal tappeto elastico del camaleontismo, alleanze disconosciute, sodalizi estemporanei per non esondare dal cerchio magico del potere. Certo, c’è un peggio e un po’ meno peggio.
Il fenomeno più eclatante ha radici nella storica disposizione dei singoli o di gruppi all’abiura dell’ideologia di partenza, a trasformismo più spinto del famoso Brachetti: la destra, come ha deciso il voto del 25 settembre, diventa potente attrattori di adepti, in corsa per il baratto ‘consenso-ricompensa’, ovvero di alleanze in cambio di ministeri e incarichi paralleli. Il drammatico gioco del dare-avere è ben dentro questa fase di contrattazioni al mercato di palazzo Chigi. Almeno un paio gli esempi choc del cosiddetto stallo, che impedisce di riempire le caselle dell’esecutivo affidato al decisionismo di “Io sono Giorgia”: Il pluri indagato Berlusca, titolare di una trentina di processi, di una condanna, di ripetute benevolenze della magistratura condizionate da potenti collegi di difesa, condiziona il “sì”’ al governo della destra, il “sì” alla ‘borgatara’, con il “sì” a due ministeri concessi a Forza Italia per tutelare i suoi interessi privati: quello della giustizia, ovvio il perché, quello delle telecomunicazioni, ovvio il perché.
La premier in pectore fa sapere che nulla osta alla nomina del ‘carrocciaro leghista’ ministro dell’interno, ovvero di un acclarato razzista, xenofobo e per il ruolo di seconda carica dello Stato propone l’ultra parafascista La Russa.
Nel fronte opposto l’ibrida commistione progressisti-moderati antepone il quiz della successione per la fallimentare leadership di Letta al pentimento operativo per aver annacquato il ruolo della sinistra. Prima di capire se il programmato congresso per la presunta rifondazione svolterà a sinistra e si riconnetterà alle emergenze sociali, al tema del lavoro, dei diritti, si rimpingua la lotteria che prevede come esito finale il nome del prossimo leader Pd. In bacheca si sommano volti e curricula: Bonaccini, governatore dell’Emilia, la sua vice Elly Schlein, Paola De Micheli, ex ministra dei trasporti nel governo Conte, Nardella, ex violinista e sindaco di Firenze, Enzo Ammendola, ex ministro del governo Conte. A suo tempo Bonaccini e Nardella sono stati politicamente contigui di Renzi e non è un certificato di garanzia per la svolta di un Pd rigenerato per il ritorno al passato di partito erede del Pci.
Altri nomi, per ora messi in circolo con la sordina, spunteranno di qui al congresso e non è un buon segno se si punta a un drastico change per ottenere una consistente rivincita dei democratici di sinistra.
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