Un invito a non votare chi vincerà. Direttamente o indirettamente: perché – per chiarire subito – poi finirà per governare lo stesso.
Chiariamo subito il mistero non poi così terribilmente intricato.
Il vincitore assoluto, quindi ‘diretto’ – la cosa è scontata ormai da mesi – sarà domani dopo le 23 Giorgia Meloni.
Il vincitore indiretto, pur sconfitto più o meno pesantemente alle urne, sarà Enrico Letta.
Degli altri poco ci interessa, in questa breve analisi, pur se con il bilancino tutte le percentuali potranno sembrare subito essenziali, anche per chi ce l’ha fatta d’un pelo: come potrà gongolare, per fare un solo esempio, il tandem Calenda-Renzi, buono per tutte le stagioni.
Cerchiamo di chiarire i non semplici termini della questione, soprattutto nel contesto di un voto che più folle di questo non s’è mai visto: sia per le modalità, che per i tempi e per il sistema elettorale al quale non s’è mai messa mano, per una vera, autentica riforma. E tendendo ben presente la riduzione complessiva del numero dei parlamentari: un fatto scellerato, un vulnus – come si dice in questi casi – della democrazia e della rappresentanza. Mentre sarebbe stato molto più ovvio, naturale ed elementare lasciare inalterato il numero dei parlamentari, ma riducendo drasticamente i loro compensi: quanto meno parificandoli, allineandoli a quelli medi europei. Elementare, Watson.
Ma torniamo ai due galli nel pollaio, Meloni e Letta.
La Giorgia nazionale ieri ha mostrato davvero i suoi attributi: scegliendo, come ultimo appuntamento elettorale, l’un tempo roccaforte dei comunisti partenopei, la rossa Bagnoli, l’ex tempio Italsider. L’ha fatto ben protetta da un piccolo esercito di accorti vigilantes, ma ha voluto lanciare il guanto della sfida.
A noi, Francamente, piace più la Giorgia nelle arene spagnole, pronta a toreare, indomita con la spada e la mantilla per infilzare i suoi avversari più agguerriti. E sentirle sulle labbra quelle parole in verace idioma ispanico: come neanche un coronel del caudillo Francisco Franco sarebbe stato in grado di pronunciare.
La verdadera Giorgia è quella che parla y canta por ‘Vox’, come ha fatto qualche mese fa (e ha ripetuto l’appello pochi giorni fa) incontrando pubblicamente, tra ali plaudenti di folla e braccia ritte nello storico saluto di tutti i fascisti, i camerati di viaggio ormai da tempo: visto che Vox ha quasi 10 anni di vita, nata sbattendo la porta del Partito Popolare e fondando la sigla “monarchica, conservatrice e neo franchista”, guidata dall’intrepido Santiago Abascal, il quale non ha problemi a definirsi “ultranazionalista, sovranista, reazionario e nativista”, ed il cui obiettivo base è la ‘Reconquista’. Non si sa bene di cosa, ma prima o poi l’amica Giorgia ce lo spiegherà.
Accusare la leader di Fratelli d’Italia di fascismo è fuor di tempo e fuor di luogo. Definirla ‘fascistoide’ – come ha acutamente osservato Luciano Canfora mesi fa – è secondo noi pienamente azzeccato. Coglie la sostanza delle cose: sia sotto il profilo storico-politico che caratteriale del Capo (o della Capa, come preferisce essere definita?) FDI. La quale riesce a calarsi perfettamente nei contesti ambientali in cui si trova ad agire, anche sotto il profilo linguistico: borgatara de Roma a Trastevere o a Torrimpietra, con ottima pronuncia inglese nel corso dell’intervista concessa al ‘New York Times’, en caliente idioma espagnolo ne la plaza de ‘Vox’.
Zelig: ma era mai costui? Il mago dell’ubiquità e del trasformismo, un mito di tanti anni fa?
E lei, Giorgia, nelle ultime settimane è riuscita nella duplice ardua impresa, cento volte meglio di quanto non abbia neanche tentato di fare l’eterno ruspante Salvini, arci-doppiato dall’ormai mitica numero uno della Fiamma che sempre, nonostante tutte le bufere, resiste nel simbolo.
Con un colpo di bacchetta magica, Lei (la maiuscola è ormai d’obbligo) è riuscita a ‘convincere’ il popolo a stelle e strisce del suo indelebile atlantismo; e, con un altro colpo da Maestra, ha fatto breccia nelle quasi impenetrabili porte di Bruxelles, aprendosi all’abbraccio di Ursula von de Leyen.
Solo rituale, a questo punto, l’apparente ceffone della teutonica Ursula per chi “non si adegua alle linee UE”, come Ungheria e Polonia.
Lei, Giorgia, c’è, è “Pronta”: pronta a genuflettersi davanti alle autorità americane ed europee, da mister Joe Biden a lady Ursula.
Soprattutto – anzi la condizione è imprescindibile – se verrà portata all’altare delle prossime trattative da un partner altrettanto genuflesso e super affidabile come Enrico Letta; e caso mai accompagnati, i due nuovi leader, dai sempre utili e scodinzolanti Calenda-Renzi.
Fine della corsa e morale della favola.
Il pasticciaccio brutto del voto ben difficilmente avrà un vincitore assoluto (o la trimurti del centrodestra Berlusconi-Meloni-Salvini). Per cui non ci sarà bisogno solo della ruota di scorta dello scontato tandem, ma anche dell’ok del partito che, pur perdente, potrà consentire una maggioranza ‘tranquilla’, secondo i desiderata di Sergio Mattarella e, ormai dall’alto del suo scranno NATO dove prenderà il posto di Jens Stoltemberg, dell’ex premier Mario Draghi.
Sorge solo un problema: chi sarà il nuovo premier, tenuta presente appunto la nuova poltrona per Mago Draghi?
Potrebbe saltar fuori la carta a sorpresa (ma non poi tanto) del super navigato nei mari UE ed ex premier Paolo Gentiloni. Semplice come bere un bicchier d’acqua. Altro asso nella manica ottimo per tutte le stagioni.
Tutto ok per i brindisi e il varo. Ma poi? Di quale navigazione, per il governo, si tratterà? Tra onde e flutti che più alti non si può, scogli e iceberg d’ogni dimensione in vista, per la sempre più montante e drammatica crisi economica e sociale che investirà il paese, tra chiusure a grappoli d’imprese, disoccupazione galoppate, bollette e prezzi alle stelle, famiglie nel caos.
E allora?
Spiccioli di fantapolitica.
Letta in esilio, un ribaltone nel PD, una nuova leadership (l’unica figura credibile all’orizzonte è quella della vicepresidente della Regione Emilia, Elly Schlein), una possibile ri-intesa con i 5 stelle rinfrancati da un buon risultato delle urne, depurati dalle tossiche scorie griffate Giggino Di Maio, ossigenati dal ritorno di uno dei fondatori, Alessandro Di Battista, con la contemporanea uscita di scena del padre-padrone Beppe Grillo.
Ed ecco che la sagoma di una nuova sinistra – capace di aggregare non solo pochi brandelli sparsi, ma soprattutto di ri-aggregare il mare di astensionismo che ancora caratterizzerà questo voto – potrà finalmente cominciare a prendere forma.
Fra otto mesi di nuovo alle urne? Staremo a vedere.
Per ora è un ‘dream’.
P.S. Vogliamo concludere con una stimolante riflessione pre-voto di Franco Cardini, di cui vi consigliamo caldamente la lettura delle domenicali ‘Minima Cardiniana’.
Eccola di seguito.
Durante le vigilie di qualcosa, di solito, si tace e si medita. Potrei nascondermi dietro la mia età e sostenere di aver già detto abbastanza. In fondo, le cose sono molto chiare: chi voleva capire, ha capito.
I tempi possono ben aver il diritto di trascinarci nella loro direzione: ma noi abbiamo a nostra volta bene il diritto di non volerci andare e di non andarci. Il 25 fate quel che vi pare: ma rispettate almeno questi argini.
Il principio inderogabile è uno solo: non si vince quando la vittoria coincide con il ribadire le proprie catene. L’infausta adesione al patto NATO ci obbliga a far parte di una scellerata coalizione internazionale, a dilapidare i pochi soldi che abbiamo nell’acquisto di armi destinate a decimare il popolo ucraino per sostenere i progetti e gli interessi di una potenza internazionale che ha già imboccato il viale del tramonto. Non votate per chi vi trascina a sostenere una guerra dalla quale invece è necessario uscire al più presto. Non votate per chi vi obbliga a importare il cattivo gas liquido statunitense per riconvertirlo a spese folli. Non votate per chi va a caccia di chi avrebbe ricevuto finanziamenti russi inesistenti sapendo benissimo che chi asservisce il suo paese allo straniero sta da anni anche sul suo libro paga.
FC
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