Ci sono medici che hanno riposto ogni fiducia solo nel “vaccino” e altri che, invece, in questi ultimi 20 mesi hanno lavorato, e molto, per curare i malati ed evitare che giungessero troppo aggravati in ospedale. Dalla loro esperienza – che ha dimostrato che, se si interviene nella fase iniziale con terapie appropriate, di COVID si può guarire tranquillamente a casa – è nato uno studio, ora a disposizione della comunità scientifica.
Pubblicato in anteprima l’8 dicembre dalla rivista peer-review ‘Medical Science Monitor’ con il titolo “Retrospective Study of Outcomes and Hospitalization Rates of Patients in Italy with a Confirmed Diagnosis of Early COVID-19 and Treated at Home Within 3 Days or After 3 Days of Symptom Onset with Prescribed and NonPrescribed Treatments Between November 2020 and August 2021 (Studio retrospettivo sugli esiti e sui tassi di ospedalizzazione di pazienti in Italia con diagnosi confermata di COVID-19 precoce e trattati a casa entro 3 giorni o dopo 3 giorni dall’insorgenza dei sintomi con farmaci di prescrizione e non di prescrizione tra novembre 2020 e agosto 2021)”, il lavoro ha, come prima firma, quella del professore Serafino Fazio, componente del Consiglio Scientifico del Comitato Cura Domiciliare COVID-19, già professore di medicina Interna all’Università di Napoli. I co-autori sono Paolo
Bellavite (già professore di Patologia generale alle Università di Verona e di Ngozi-Burundi), Elisabetta Zanolin (Dipartimento di Diagnostica e Sanità Pubblica dell’Università di Verona), Peter A. McCullough(Department of Cardiology, Truth for Health Foundation, Tucson, AZ, USA) che ha sottoscritto lo schema terapeutico del Comitato Cura Domiciliare COVID-19, Sergio Pandolfi (Neurochirurgo – Ozonoterapeuta, Docente al Master di II° livello in ossigeno-ozono terapia Università di Pavia) e Flora Affuso (ricercatrice indipendente).
Lo studio ha evidenziato, in un gruppo di 85 pazienti con COVID-19, un azzeramento dei ricoveri se la terapia viene messa in atto nei primi tre giorni e conferma quello che già altri studi pubblicati a partire da maggio 2020 (ad esempio da Paesi come Stati Uniti, Corea, Iran e India) hanno messo in luce ossia i benefici positivi delle cure precoci e in particolare dell’utilizzo dell’indometacina, farmaco antinfiammatorio non steroideo e agente virale ad ampio spettro che costa poco più di un euro e che sembrerebbe in grado non solo di fornire un sollievo sintomatico più rapido ai pazienti, ma di prevenire anche le complicanze.
Dopo lo studio Remuzzi-Suter dell’Istituto Mario Negri, che ha avuto il merito in Italia di imporre il tema delle cure domiciliari anche nel campo delle pubblicazioni scientifiche, questa nuova pubblicazione dovrebbe rappresentare un vanto nazionale e richiamare l’attenzione dei principali giornali nazionali e della TV, mentre finora è stata pressoché ignorata. Ne ha parlato, invece, di recente un importante giornale indiano che ne ha sottolineato l’importanza.
Del resto, è noto come da noi il tema delle cure precoci e domiciliari sia stato sottovalutato sin dall’inizio. E non si può dire che il Governo non ne fosse a conoscenza: secondo quanto si può leggere nell’interrogazione parlamentare n° 3-02869, pubblicata il 19 ottobre 2021 – seduta n. 368, “a partire dal mese di aprile 2020 (dunque, poco tempo dopo l’inizio della pandemia da Sars-CoV-2) il Ministero della salute era stato adeguatamente informato sull’esistenza di evidenze cliniche che dimostravano come ottenere, attraverso un uso combinato di farmaci del prontuario, una pronta guarigione dall’infezione”. Infatti, fin dalla primavera 2020, erano stati inviati a Ministero, AIFA e CTS diversi appelli e segnalazioni da parte di diversi gruppi di mediciche – si legge sempre nell’interrogazione parlamentare – “iniziando a curare precocemente i malati di COVID-19, andavano scambiandosi man mano esperienze cliniche e si costituivano in associazioni. Ognuno di questi gruppi, autonomamente, era arrivato alle medesime conclusioni rispetto all’approccio terapeutico corretto in grado di contrastare l’infezione, basato sulla consapevolezza dell’assoluta necessità di un intervento farmacologico tempestivo e di un monitoraggio costante delle condizioni del paziente, sia attraverso visite a domicilio sia attraverso la telemedicina, onde contrastare un aggravamento irreversibile delle condizioni di salute”.
Eppure, nonostante l’autorevolezza delle fonti da cui provenivano tali indicazioni, non si è ritenuta neppure opportuna un’azione di verifica di quanto stava emergendo a livello clinicoe “il protocollo ministeriale, emanato in data successiva a questi appelli (novembre 2020), indicava ancora ai medici di base di non somministrare alcun farmaco ai malati di COVID-19, anche se sintomatici, nell’arco delle prime 72 ore dall’insorgenza dei sintomi, tranne il paracetamolo, e anche il successivo protocollo (attualmente in vigore ed emanato ad aprile 2021) associava al paracetamolo soltanto i “fans” (antinfiammatori comuni)”.
Viene da chiedersi se non sia questa una delle ragioni per cui in Italia la ‘seconda ondata’ (autunno 2020) ha fatto registrare uno dei tassi di letalità più alti del mondo (3,5 su 100 soggetti malati di COVID-19). Questo nuovo studio e quello già citato del Mario Negri sembrano confermare questa ipotesi.
La motivazione addotta nelle stesse linee guida del Ministero, dove addirittura sono stati sconsigliati determinati farmaci, è stata ricondotta “all’assenza di studi scientifici in grado di comprovarne l’efficacia per il COVID-19”, farmaci in realtà già noti e diffusi in tutto il mondo anche per la cura domiciliare di comuni patologie e che, sotto appropriato controllo medico, non hanno mai causato effetti collaterali gravi.
Magari studi scientifici di verifica verso ciò che stava emergendo a livello clinico avrebbero potuto promuoverle quelle stesse autorità che li invocavano, le quali, però, hanno voluto puntare tutto sui vaccini, in realtà farmaci dichiaratamente sperimentali, come scritto dalle stesse case farmaceutiche.
Il dramma è che tuttora le molteplici opzioni farmacologiche da utilizzarsi già nelle prime fasi della malattia, o persino in soggetti semplicemente positivi al tampone, sono per lo più sconosciute alla popolazione e probabilmente agli stessi medici di medicina generale che, di fatto, non riescono ad applicare protocolli più complessi e avanzati rispetto alle linee guida del Ministero.
Tornando allo studio di cui si parlava in apertura di articolo, la sua recente pubblicazione potrebbe rappresentare l’occasioneper riconoscere finalmente il giusto valore alle cure precoci domiciliari e diffonderne la conoscenza, soprattutto rendere i medici di famiglia capaci di metterle in pratica e, magari, istruire finalmente un tavolo tecnico finalizzato alla revisione dei protocolli ministeriali. Tanto più che i riflettori continuano ad essere puntati su varianti e aumento dei contagi.
Pare opportuno, quindi, nell’intento di diffondere ogni informazione utile allo sviluppo di una sempre maggiore conoscenza e consapevolezza, non solo dare notizia di questa importante pubblicazione, ma anche dare la parola a uno degli autori, il Professor Paolo Bellavite.
Prof Bellavite perché è importante questo studio, che periodo ha coperto e che tipologia di pazienti ha preso in esame?
“È importante perché è il primo studio italiano che ha paragonato il risultato di una terapia secondo il tempo passato dal momento in cui è iniziata. Mi spiego meglio: si sono confrontati due gruppi e, nella scienza, quando si confrontano due gruppi è sempre un avanzamento di conoscenza. Di questi due gruppi, un gruppo di 85 persone è stato curato entro 3 giorni dall’inizio dei sintomi, mentre un altro gruppo di 73 persone, che avevano ritardato a rivolgersi al medico, sono state curate dopo 3 giorni, dunque dal quarto in poi. In generale si è trattato di soggetti di età media intorno ai 45 anni anche con comorbilità e stiamo parlando dell’ondata tra novembre 2020 fino ad agosto 2021. Fondamentalmente il lavoro ha dimostrato che se questa terapia comincia a presto, entro 3 giorni dall’inizio dei sintomi, allora il risultato è enormemente migliore di quello che si ottiene se la terapia comincia dal quarto giorno in poi, cioè tardi. Il punto nodale è proprio questo: cominciare presto. Cominciando precocemente, nel nostro caso la malattia è durata mediamente 6 giorni e di 85 persone neanche una è finita in ospedale. Nel gruppo dei 73 ‘ritardatari’ la malattia è durata mediamente 13 giorni e in 14 casi è stata necessaria la ospedalizzazione a seguito del peggioramento delle condizioni polmonari.”
Anche il nefrologo e chirurgo di trapianto renale di Chennai, Rajan Ravichandran, in India ha usato con efficacia l’indometacina per curare i pazienti COVID-19. La squadra italiana ha seguito il suo protocollo o ha creato un proprio schema terapeutico?
“Il professor Fazio ha studiato molto la terapia del COVID-19 perché ha curato i pazienti già dalla prima ondata ovvero già dalla primavera del 2020 ed è stato uno dei fondatori del gruppo delle terapie domiciliari. Nella sua lunga esperienza è arrivato a concepire questa multiterapia dopo studio, osservazione e riflessione sui diversi risultati ottenuti con diverse formulazioni. L’utilizzo dell’indometacina non è stato un “colpo di genio” improvviso, né è stato ispirato dal collega indiano, anzi è stata una sorpresa e una conferma per lui vedere che anche altri l’avevano usata con successo. La scelta del farmaco, in realtà, è stata fatta per i suoi effetti al contempo antinfiammatori e antivirali.
Inoltre, il prof. Fazio in passato aveva molto studiato i benefici della dieta e i flavonoidi insieme alla moglie, Flora Affuso, che è una degli altri autori dello studio e, indipendentemente da me e dalle mie ricerche in merito, sono arrivati a concepire l’utilizzo di integratori alimentari che contengono queste sostanze vegetali, in particolare quercetina e esperidina. Possiamo dire che, in maniera parallela, sia io che il Prof. Fazio siamo arrivati a capire tre importanti funzioni di queste sostanze naturali, soprattutto se utilizzate in una particolare formulazione che contempla anche l’utilizzo della vitamina C: funzione antiossidante, antivirale e antinfiammatoria. Infine, c’è una quarta e utile funzione, quella di protezione della barriera intestinale, perché i flavonoidi agiscono favorevolmente sulla flora batterica.
Il terzo prodotto che fa parte dello schema terapeutico utilizzato sui pazienti dello studio, dopo indometacina e i flavonoidi, è l’aspirina da 100 gr, piccolo dosaggio, quella che viene usata normalmente per prevenire la trombosi e l’infarto: la prevenzione della trombosi è importante perché la malattia COVID-19, quando si complica, provoca anche disturbi della coagulazione e dell’aggregazione piastrinica quindi, anche se in molti pazienti questo non si verifica, dare una copertura con questo popolare farmaco antinfiammatorio è utile.
Dunque lo schema terapeutico che abbiamo utilizzato si fonda su tre prodotti: l’indometacina, un integratore alimentare a base di flavonoidi e l’aspirinetta. Sono tutti farmaci sicuri e già in commercio che i medici già conoscono, di facile reperibilità e dal costo relativamente basso. Poi, siccome gli antinfiammatori qualche volta, in alcune persone, possono dare problemi a livello gastrico, si può aggiungere omeprazolo, un inibitore della pompa protonica per coprire il rischio dell’effetto gastro lesivo dell’antinfiammatorio. Si tratta di un elementare concetto di prudenza clinico-terapeutica, anche se recenti studi sembrerebbero suggerire che l’omeprazolo potrebbe forse ridurre i recettori del virus sulle cellule.
È sempre importante sottolineare che è un medico che deve fare la diagnosi di COVID-19, la prescrizione e poi seguire il malato. L’autocura è sempre sconsigliata, anche perché possono esserci interazioni con altri farmaci che un individuo, eventualmente, sta assumendo o controindicazioni in certe situazioni.”
Lo studio italiano raccomanda di iniziare il trattamento entro tre giorni dall’insorgenza dei sintomi invece del protocollo standard di vigile attesa e paracetamolo. Quali sono i sintomi che devono allertare e far capire che è il momento di ricorrere alle cure?
“I sintomi iniziali della COVID-19 si conoscono ormai bene e sono: mal di testa, mal di gola, rinite, spossatezza, male alle articolazioni, dolori muscolari, tosse, talvolta diarrea. La febbre di solito c’è ma non è detto che sia molto alta, almeno all’inizio. Ci può essere anche la perdita del gusto e dell’olfatto. Circa il 20% dei nostri pazienti presentavano anche dolori al petto. Si tratta di sintomi che però non si presentano sempre tutti o possono variare, nello studio c’è tutto un elenco dei sintomi che sono stati misurati precisamente.
Una persona attenta che sa ascoltare il suo corpo lo capisce che non si tratta di un semplice raffreddore e si rende conto quando il malessere peggiora. Siamo nel periodo epidemico e può capitare di frequentare persone positive anche asintomatiche, la probabilità si alza allora. In caso di dubbio il paziente deve chiedere che il medico di medicina generale si occupi di lui: il medico deve curare, non può non farsi trovare disponibile o imporre trattamenti contro la volontà del paziente. Altrimenti è bene rivolgersi ai medici delle cure domiciliari e, in questi quasi due anni, sono nate varie iniziative: il gruppo delle terapie domiciliari COVID-19 fondato dall’avvocato Grimaldi che è anche citato nel nostro studio e ha dato un grosso contributo, poi c’è il gruppo di Ippocrateorg.org ugualmente molto attivo e, di recente, è nata l’iniziativa del Dottor Stramezzi che adesso sta diffondendo una app con cui si potrà gestire il rapporto con i medici. In caso estremo, se proprio il paziente non trovasse nessuno, potrebbe rivolgersi direttamente al farmacista che può dare sempre un consiglio.
Una possibilità da valutare, in periodo epidemico, potrebbe essere di andare dal medico facendo conoscere il nostro articolo (in cui sono citate altre esperienze analoghe) e chiedere preventivamente la prescrizione della cura da usare eventualmente in caso di bisogno per averla subito disponibile a casa. Poi il medico, comunque, dovrà seguire il paziente effettuando un attento monitoraggio, perché ci possono essere dei casi in cui il paziente magari necessita di altri farmaci. Infatti è giusto precisare che i farmaci che ho citato non sono gli unici medicinali possibili, ci possono essere anche varie altre opzioni, ma in questo momento stiamo parlando di quella che è stata la nostra esperienza e del risultato del nostro studio.”
L’Italia continua ad avere un approccio ‘aspetta e osserva’ e a consigliare l’isolamento domiciliare e il paracetamolo per alleviare i sintomi durante l’insorgenza dell’infezione da Sars-CoV-2. Che Lei sappia è l’unico Paese al mondo? Tra l’altro l’uso del paracetamolo è stato messo in discussione in quanto aumenterebbe proprio la suscettibilità alla polmonite da COVID-19. Vuol precisare perché?
“Peter A. Mc McCullough, che tra l’altro è anche co-autore dello studio, ha detto che in America è la stessa cosa. Anche negli Stati Uniti, per iniziativa di Fauci, è tutto concentrato sempre sulla campagna vaccinale, anche lì ritardano le cure e non hanno sviluppato dei protocolli o politerapie né ancora hanno focalizzato l’importanza di cominciare presto la presa in carico del paziente. Egli ha scritto due tre lavori importanti, prima di noi, in cui sottolinea l’importanza di cominciare presto le cure, ma la situazione purtroppo, a quanto pare, è simile alla nostra anche in altri Paesi.
Per quanto riguarda il paracetamolo, è uno dei farmaci più usati al mondo ma bisogna stare molto attenti a non superare i dosaggi consigliati. Inoltre, nel caso della COVID-19, ci sono due motivi fondamentali per cui è stato criticato: innanzitutto viene metabolizzato attraverso la via del glutatione, che è la stessa via che serve per difendersi dal virus. Dando il paracetamolo si rischia di aumentare lo stress ossidativo, consumare glutatione e quindi di complicare la vita alla cellula che già sta combattendo contro il virus. Il secondo motivo per cui l’uso del paracetamolo potrebbe essere sconsigliabile è perché molti malati di COVID-19 hanno anche problemi al fegato e il paracetamolo viene metabolizzato proprio nel fegato, dove produce una sostanza che è tossica proprio per il fegato stesso. Quindi il danno del farmaco con il suo metabolita, se preso più o meno avvertitamente in eccesso, andrebbe a sommarsi con il danno del virus. Comunque il nostro articolo non confuta direttamente il paracetamolo, è una critica ben documentata nei confronti del ritardo delle terapie”
Il vostro studio ha dato risultati molto incoraggianti e ha richiamato l’attenzione della stampa estera, ma non ha ricevuto la giusta considerazione in Italia. Eppure, secondo le previsioni emanate il 17 dicembre dalla Presidenza della Comunità Europea e rilanciate continuamente dai media, la variante Omicron è destinata a divenire dominante in Europa nel gennaio 2022. Se non si provvede a potenziare urgentemente l’assistenza di base a livello domiciliare, non si rischia che la popolazione si trovi senza cure efficaci e che ci sia una conseguente ondata di ricoveri ospedalieri che potrebbe mettere nuovamente a repentaglio il funzionamento del sistema sanitario?
“Ovvio! Quelli che si curano presto, con gran probabilità non andranno incontro all’ospedalizzazione, ma se si aspettano più giorni, il rischio di ospedalizzazione aumenta enormemente, addirittura nel nostro studio abbiamo fatto un calcolo che ogni giorno di ritardo aumenta di 4-5 volte il rischio di finire in ospedale. Va detto però che il nostro studio non ha considerato la variante Omicron, che parrebbe mono patogena anche se più contagiosa.
La precocità delle cure è una cosa fondamentale ed è quello che noi abbiamo evidenziato e, tra l’altro, è una conferma di un’altra serie di ricerche che, come già accennato, sono state fatte dal gruppo del Mario Negri capitanato dal Professor Remuzzi. Anche loro avevano già pubblicato un’osservazione – con un metodo diverso dal nostro in realtà – che, cominciando presto, già dal primo giorno si riducevano ospedalizzazioni dal 10% al 1%: parliamo di 10 volte di meno! Dieci volte di meno vuol dire che se noi abbiamo un milione di persone malate, di cui 100.000 andrebbero a finire in ospedale, con le cure precoci ce ne finirebbero solo 10.000! La cosa cambia notevolmente per le terapie intensive, è una differenza enorme. Ovviamente questi dati sono da considerarsi come preliminari perché le metodologie non consentono conclusioni definitive. I nostri studi andrebbero ripresi e fatti da altri gruppi magari confrontando diversi protocolli, ma è innegabile l’esperienza più che positiva che in questi due anni diversi medici hanno fatto curando le persone a casa: hanno avuto dei grossi risultati. Sarebbe stato molto più valido se ci fosse stato un coordinamento nazionale, ma lo avrebbe potuto fare solo il Ministero della Sanità che avrebbe dovuto permettere ai medici di prescrivere ciò che ritenevano più utile in scienza e coscienza e raccogliere i dati e le casistiche in modo tale che a livello centrale, una volta raggiunti grossi numeri trattati da centinaia di medici, si potesse poi facilmente capire dove indirizzarsi per avere i risultati migliori. Purtroppo, non è stato fatto nulla di questo.”
Ci sono sempre più persone vaccinate eppure sempre maggiori contagi per i quali si dà la colpa ai non vaccinati, ovviamente. Il vostro schema potrebbe essere di aiuto anche ai vaccinati che si contagiano?
“Il professore Fazio recentemente ha cominciato a curare anche molti vaccinati che si ammalano e sta ottenendo buoni risultati anche con loro, per il momento non c’è questa grossa differenza nelle risposte alle terapie. Un’osservazione che mi riferisce il collega è che i vaccinati si presentano con sintomi di COVID-19 iniziali leggermente inferiori a quanto era abituato a vedere con i non vaccinati.”
L’esperienza sta dimostrando che i vaccini anti-COVID non possono garantire un’immunizzazione sterilizzante dall’infezione, dunque, nemmeno l’immunità di gregge. Perché le cure domiciliari continuano a non interessare?
“L’immunizzazione con il vaccino non funziona anche perché non si formano le immunoglobuline della classe A che sono quelle durano, stanno sulle mucose e dovrebbero bloccare il virus prima dell’ingresso nelle cellule. Questi farmaci fanno produrre gli anticorpi che per un periodo di qualche mese proteggono la persona “dall’interno”, cioè dalle conseguenze organiche più gravi, ma non sono comunque protette le mucose e infatti il vaccinato è contagioso come può esserlo il non vaccinato. Può darsi che abbia meno sintomi, ma il fatto che abbia meno sintomi, se è un bene per lui, non è un necessariamente un bene per la collettività, perché ovviamente la persona va in giro mostrando il “super green pass” ma può diffondere il virus.
La cosa importante che posso dire a tal proposito è che i flavonoidi che abbiamo sperimentato nello studio, presi lontano dai pasti con la forma “orosolubile”, si liberano in notevoli concentrazioni nella bocca, nella faringe e nell’esofago e ci rimangono in una concentrazione notevole quindi c’è una probabile inibizione dell’attacco eventuale del virus. Quello che non riescono a fare gli anticorpi se non ci sono le immunoglobuline di classe A, lo possono fare questi flavonoidi: almeno questo evidenziano gli studi di laboratorio, ovviamente non abbiamo ancora una prova clinica che questo succeda anche in vivo però è molto plausibile che questo succeda anche perché la concentrazione che si raggiunge nella bocca è molto elevata quindi è altamente probabile che si formi una barriera all’ingresso del virus nelle cellule o un blocco della sua replicazione.
Infine mi chiede perché le cure domiciliari continuino a non interessare. Bella domanda!
Avrei due risposte. C’è la versione, che sarebbe da prediligere, della ‘sbornia del vaccino’ che rimanda a una forma di ignoranza delle altre possibilità, come se il vaccino avesse obnubilato le menti. Poi c’è un’altra versione più drammatica o ‘complottista’ e cioè che, se ci fossero state le cure, non si sarebbero più potuti propagandare i vaccini. Vaccini che, come ha detto il filosofo Agamben ai senatori, non sarebbero in realtà lo scopo finale delle autorità governative, poiché lo scopo finale sarebbe il green pass sempre più rafforzato, vale a dire una forma di controllo totale sui cittadini. In questo caso non ci sarebbe più da parlare di ignoranza o trascuratezza, ma di una volontà politica che ‘usa’ la pandemia per un disegno diverso e quindi non accettabile.”
FONTE
articolo di
pubblicato da ComeDonChisciotte.Org
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