“Quando i comunisti erano poeti”. E’ il bellissimo titolo che Enrico Fierro, il grande giornalista d’inchiesta, avrebbe voluto per un libro scritto da Paolo Speranza dedicato al sindaco poeta Pasquale Stiso, “Questa è una storia vera o forse no”, pubblicato nel 2013 dalla piccola ma dinamica editrice irpina ‘Mephite’.
Enrico scrive una prefazione che viene tutta dal cuore, e che di seguito vi proponiamo.
Avvocato, militante del Pci, sindacalista della Cgil, Pasquale Stiso incarna davvero la figura dell’intellettuale organico degli anni ruggenti del partito che fu di Togliatti e di Berlinguer. Un intellettuale organico immerso anima e corpo sia nella politica che nell’arte, nella cultura. E’ stato sindaco di Andretta, un piccolo comune dell’avellinese, nel 1952, poi consigliere provinciale Pci eletto nel collegio di Calitri.
Poeta, scrittore, Stiso ha anche firmato alcuni testi teatrali, tuttora inediti.
QUANDO I COMUNISTI ERANO POETI
DI ENRICO FIERRO
Il libro di Paolo Speranza ci racconta una storia vera. E’ la vicenda umana di una generazione di contadini, operai, intellettuali e borghesi che venivano dalle città e dalle campagne dell’Irpinia, che furono il corpo e l’anima del Partito comunista italiano in queste terre del Sud.
“Quando i comunisti erano poeti”, forse Paolo avrebbe potuto intitolare così il suo bel libro, narrazione di un pezzo dimenticato della storia di questa disgraziata provincia. Come definire Pasquale Stiso, come collocarlo nella geografia sociale degli anni che seguirono la Seconda Guerra mondiale in quel lontano spicchio di Sud Italia che era l’Irpinia? Era un giovane avvocato dalla carriera promettente, poteva avere tutto dalla vita, eppure volle spendere la sua cultura, le sue capacità, le sue tensioni civili per l’idea di un progresso fatto di giustizia ed equità sociale. Era un intellettuale impegnato nella lotta politica, i dubbi lo divoravano e gli tormentavano l’esistenza. Stiso era un irrequieto, uno che non si accontentava mai, un ricercatore costante, un intellettuale aperto al mondo, pronto al confronto con chi viveva oltre i monti, a Roma, Milano, nelle città che in quegli anni di dopoguerra e di speranze di rinascita, erano il fulcro della cultura dell’Italia che riemergeva dalle macerie. Gian Maria Volonté, ci ricorda Paolo, si incantava nel leggere i versi di quell’avvocato di Andretta che un amico miracolosamente gli faceva arrivare fino a Roma. Ci piace immaginare l’attore che fu Bartolomeo Vanzetti nel capolavoro di Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti, tirar fuori il libro con i versi dell’avvocato irpino, sedersi in un angolo del set e in una pausa leggere e godere di quella poesia che parlava di terre aride e contadini poveri, di lotte dure e di speranze.
Stiso seppe essere poeta, giornalista, cineasta, dirigente politico comunista, sindaco e consigliere provinciale. In ogni attività, di azione e di pensiero, seppe dare tutto se stesso. Senza risparmio, senza mai badare agli interessi suoi. Se Edward C. Banfield avesse conosciuto uomini come Pasquale Stiso, avrebbe forse modificato molti dei suoi concetti sul Sud e il familismo amorale. Quello di Stiso e dei comunisti di quel periodo era puro e limpido amore per la collettività, per una terra, per le classi sofferenti che erano l’anima dolente di un popolo.
Paolo Speranza si è assunto il difficile compito di strappare alla dannazione della memoria l’opera di Stiso e il racconto di quegli anni, opera meritoria, grandissima, che non può essere confinata nei recinti di una pubblicistica apparentemente minore. Queste pagine andrebbero lette nelle scuole, perché nell’opera di Stiso c’è materia per riflettere sulla storia di quegli anni, perché le poesie dell’avvocato-sindaco, i suoi racconti sono letteratura pura. E poi c’è una ragione in più, sulla quale riflettere a lungo e che io sintetizzo in un pensiero. Gli intellettuali quando sono grandi, e lo sono perché vivono il loro tempo non in una torre d’avorio o in un salotto, ma tra la gente che quei tempi vive soffrendo, sanno anche prevedere il futuro, ci indicano come il corso delle cose muterà da oggi ai decenni che verranno.
E’ questo il senso più profondo del racconto di Stiso Questa è una storia vera o forse no. Quando l’ho letto anni fa grazie a Paolo, sono rimasto incantato. Lo leggerete in queste pagine e vi troverete la storia di un disgraziato che si affida ad un “procuratore di espatri clandestini” per raggiungere la meta ambita: l’America. Per il mio lavoro di giornalista ho seguito da sempre le rotte degli scafisti, prima quelli che dall’Albania e dalle terre balcaniche trasbordavano i migranti sulle coste italiane, poi, dalla Sicilia, i negrieri che dalle coste tunisine o libiche portavano la loro “merce”, uomini, donne, bambini, sulle rocce di Lampedusa. Sono stato nei porti di Valona, Albania, negli anni Novanta, a Sfax, Tunisia, un decennio dopo, per vederli da vicino gli scafisti mercanti di morte. Ho parlato con i migranti arrivati dopo giorni di tormenti in mare su barconi fradici sulle coste pugliesi e siciliane. I loro volti impauriti, la paura dell’incognito nei loro occhi, la disperazione di chi aveva venduto tutto per inseguire un sogno, la speranza di avercela fatta, erano le stesse del disgraziato contadino irpino raccontato da Stiso. Nell’ultimo naufragio avvenuto a Lampedusa nell’ottobre scorso (più di 300 morti), un medico che aveva il triste compito di ricomporre i cadaveri ripescati in mare, mi descrisse i bambini morti annegati, tutti erano vestiti ordinatamente, con le scarpe e i vestiti nuovi. “Proprio come noi meridionali quando andavamo all’estero, non volevano sfigurare, anche loro volevano presentarsi bene”. Una faccia, una razza. Per questa ragione quando parlai di quel racconto a Michele Vietri, artista poliedrico e uomo di cinema che ha avuto la fortuna di lavorare con Giuseppe Tornatore, decidemmo che quella storia doveva diventare un film. Leggemmo e discutemmo per settimane, poi mettemmo giù la storia di Nuova York, liberamente tratta da un racconto di Pasquale Stiso. Nella nostra trasposizione per il cinema, ci siamo presi delle libertà. Nuova York, a differenza di quanto avviene nel racconto, non torna al suo paese, ma rimane nel porto di Napoli, a ridosso del Molo Beverello (da dove partivano i bastimenti per le Americhe), lì, nel luogo dell’inganno, dove uno scafista senza scrupoli lo ave va scaricato dopo giorni di navigazione facendogli credere che quella era davvero New York, si perde. Trascina la sua vita da barbone fino ai giorni nostri nella Napoli chiassosa e violenta, imbrogliona e sfottente, la metropoli che ha divorato lui e la sua terra, l’Irpinia. Anche il nostro sogno, però, è rimasto sulla carta. I film costano, le idee da sole non viaggiano, e poi a chi interessa una storia di disgraziati e comunisti, una storia in bianco e nero, una storia di uomini? A nessuno, neppure nell’Irpinia di oggi, terra smemorata, terra che da sempre affronta il futuro odiando il suo passato. Meglio parlare di santi e beati, meglio ancora raccontare il terremoto, quello del 1980 con i suoi tremila morti e gli scandali, come se fosse una telenovela brasiliana. E poi i comunisti. Non esistono più. Non li ha cancellati il crollo di un Muro, ma la fine di ogni speranza, la morte delle idealità e delle idee, l’abbattimento di ogni regola morale, la fine della poesia.
Nella politica per come è diventata oggi, Pasquale Stiso e quell’esercito di generosi che sacrificarono vita e carriere per un’idea di giustizia, non troverebbero spazio, sarebbero tenuti ai margini, considerati inadatti, fuori schema, degli irregolari non al passo con la religione della politica spettacolo, della politica affare, della politica svincolata da ogni morale. Non è più tempo di poeti, ma di lupi feroci. Però una volta i poeti esistevano, Paolo Speranza racconta Pasquale Stiso, e il suo libro andrebbe letto ad alta voce e con le lacrime agli occhi in tutte le scuole.
ENRICO FIERRO
(dalla prefazione a Questa è una storia vera o forse no, Mephite, 2013)