Qui rido io: quando Scarpetta sconfisse D’Annunzio

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’A querela,’o pruciesso, ‘a parudia, / tutt’ ’e magagne e tutt’ ‘e nfamità… / veramente me l’avesse sunnato / e che mò, miez’a buie, me so scetato?”.

All’indomani della sentenza sulla parodia teatrale di La figlia di Iorio, che nel marzo del 1906 lo aveva visto prevalere su Gabriele D’Annunzio, Eduardo Scarpetta la commentò nel modo a lui congeniale: un divertente sonetto d’occasione intitolato ‘A causa mia, che il commediografo declamò agli invitati del banchetto nel Caffè Calzona.

“Qui rido io”, poteva finalmente rivendicare, come nella frase incisa sulla sua villa di campagna, scelta da Mario Martone per il titolo del film che oggi viene presentato in anteprima mondiale a Venezia. Del resto il presidente del Tribunale di Napoli, Adolfo Giaquinto, nella sobria e lucida motivazione della sentenza lo aveva sottolineato: “D’Annunzio vuol destare sentimenti di dolore e di terrore; Scarpetta giovialità e riso”, per cui risultava del tutto infondata l’accusa di riproduzione abusiva della tragedia dannunziana La figlia di Iorio da parte di Scarpetta. Il figlio di Iorio era nient’altro che una parodia, forse mal riuscita, come riconobbero anche i suoi sostenitori, ma legittima, come le precedenti parodie scarpettiane: quella della Boheme, che aveva fatto divertire lo stesso Puccini, e di La geisha, di Sidney Jones, accolta trionfalmente alla “prima” del 6 febbraio 1904 al Teatro Valle di Roma (oggi chiuso, in cui Martone ha girato molte scene di Qui rido io), dove aveva fatto il suo esordio un “giapponesino” di quattro anni, Eduardo De Filippo, uno dei numerosi figli naturali di Scarpetta.

Questa volta, però, c’era di mezzo il Vate, per molti italiani (e lo stesso Scarpetta) il più grande poeta nazionale vivente, e a nulla erano valse le sostanziose modifiche al testo originale, come attesta Mario Corsi su “L’Illustrazione italiana” del 24 ottobre 1943: la scena era stata spostata dall’Abruzzo a Pozzuoli, tutti i personaggi avevano cambiato sesso (lo stesso Scarpetta interpretò il ruolo di Cornelio in abiti femminili) e il terzo atto, il più carico di pathos, era stato soppresso. Né era servito il gesto di cortesia da parte di Scarpetta, che per ottenere l’autorizzazione di D’Annunzio (e prevenirne il temuto anatema) si era recato nell’agosto del 1904 nella villa del Vate a Marina di Pisa, in una giornata buia e tempestosa, in compagnia del comune amico Gaetano Miranda. Il poeta, in realtà, si era mostrato piuttosto tiepido ma non ostile al progetto teatrale di Scarpetta, come rievoca quest’ultimo nel 1922 nel libro di memorie Cinquant’anni di palcoscenico; ma più realisti del re furono gli esagitati fan di D’Annunzio (i “patuti”, li ribattezzò Scarpetta), che alla “prima” del Figlio di Iorio, il 3 dicembre 1904 al “Mercadante” di Napoli, inscenarono all’inizio del secondo atto un’indegna gazzarra, che indusse la direzione del teatro a sospendere le repliche. Per Scarpetta, abituato a platee osannanti, fu uno choc, ma il peggio doveva ancora venire. Una settimana dopo la “prima”, il direttore della Società Generale degli Autori, Marco Praga, sporse querela contro Scarpetta, a nome della SGA e dello stesso D’Annunzio, rivelando una strategia preordinata, e nominò come periti di parte tre prestigiosi artisti napoletani: “i miei cari e buoni amici”, come li definirà ironicamente Scarpetta nelle sue memorie, Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco e Giulio Massimo Scalinger.

Cornelio Scarpetta. Sopra, il monologo Il figlio di Iorio

A difesa di Scarpetta si schierarono un agguerrito collegio di avvocati e, come periti di parte, due intellettuali altrettanto illustri: Benedetto Croce e il critico siciliano Giorgio Arcoleo, l’allevo più brillante di Francesco De Sanctis. Con questo parterre di esperti il processo ebbe un’eco planetaria (con la stampa italiana più favorevole a D’Annunzio, quella americana e il francese “Le Figaro” pro-Scarpetta) e una valenza epocale: per la prima volta un tribunale era chiamato a esprimersi su temi, ancora oggi stringenti, come la libertà dell’artista, il diritto d’autore, il limite della satira. “Delitto di parodia”, come il titolo dello spettacolo su questo processo andato in scena con successo nel 2008, per la regia di Francesco Saponaro, da un soggetto di Antonio Vladimir Marino. E come non ricordare la geniale trovata di Ugo Gregoretti, che nel 1985 mise in scena sia La figlia di Iorio che la parodia di Scarpetta, affidando agli spettatori l’”ardua sentenza”?

Il processo vero, sovvertendo i pronostici, lo vinse Scarpetta, grazie soprattutto agli interventi di Croce e Arcoleo e alla determinazione dei suoi legali, uno dei quali, Francesco Spirito, non esitò a definire D’Annunzio “vate dell’incesto” e “inventore di lascivie”. La sentenza, scrive un giornale dell’epoca, “fu accolta da fragorosi applausi e il comico napoletano fu sollevato di peso dai suoi amici e trasportato fuori dall’aula fra acclamazioni”. Ma la gioia più grande la regalò a Scarpetta il napoletano più famoso nel mondo, Enrico Caruso, che in una lettera molto cordiale gli chiedeva due copie del Figlio di Iorio, per poter “ammirare questo lavoro che tanto chiasso suscitò sui giornali del mondo intero”. Anni dopo, persino la stampa fascista finì per ammetterlo: “Don Felice Sciosciammocca aveva vinto…”.

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