Il verbo agognato è “pfizer…are”

Il vantaggio per nulla secondario di Israele nel contrasto alla pandemia del coronavirus è il dato numerico dei suoi nove milioni cittadini, che consente di affrontare il determinante piano vaccinazioni a dimensione compatibile con la disponibilità di dosi e complessità organizzativa per la copertura immunitaria della sua popolazione. Niente di paragonabile al titanico impegno di Cina, India, Brasile, Sud Africa, degli stessi Stati Uniti, in bilico tra eccellenze (Cina)  e comportamenti fallimentari (Usa). Il confronto con lo stato ebraico non sarebbe però probante senza l’indagine sulla discutibile tempestività e l’efficienza organizzativa di ciascuno dei Paesi citati e perché no degli europei. Carpire i perché del mito Israele, primatista mondiale di operatività nella tutela anti Covid, è merito di Sky news che questa mattina lo ha indagato in via diretta. L’intervista ha permesso all’ israeliano Arnon Shahar, medico della task force, di tenere una lectio magistralis televisiva sul tema ‘Come siamo bravi” in trance di autocompiacimento: “Abbiano visto che dopo sette giorni si verifica un’efficacia del 93% contro la malattia. Il 7% di pazienti che possono ammalarsi di Covid-19 lo ha fatto in forma lieve se vaccinati”. Due milioni di suoi connazionali hanno già ricevuto la seconda dose del Pfizer, anche ragazzi di sedici-diciotto anni, per consentire il rientro a scuola. Ancora Arnon Shahar: “Non abbiamo niente da insegnare all’Italia. Abbiamo mostrato cosa facciamo, per esempio, che non sprechiamo dosi di vaccino. Se alcuni non si presentano ricorriamo a persone ‘in panchina pronti a sostituirli”.

E in Italia? Dosi insufficienti, alte percentuali di ‘no vax’, perfino tra medici, infermieri, studenti, insegnanti, forze dell’ordine e una valanga di dubbi sull’efficacia di questo o quel vaccino. La precedenza: degli ultra ottantenni, dei soggetti fragili, di studenti e insegnanti, di under o over 50. La progressione di qualche dato incoraggiante induce a premere sull’acceleratore delle libertà negate, con il rischio di vanificare i sacrifici di restrizioni parziali o totali, spinge a tingersi di colori regionali più sbiaditi, finge di non sapere, che ad ogni ok concesso a varie forme di libertà, corrispondono ‘anarchie comportamentali’ e conseguenti impennate delle curve di contagi, ricoveri e deceduti. Sembra quasi non spaventare più il rito del bollettino quotidiano, il suo bilancio, che nella casella più tristemente emotiva dà conto dei morti, sempre oltre trecento al giorno, né il tam-tam di virologi e altri luminari che raccontano la virulenza delle varianti Covid, il loro proliferare in grado di contagiare per un 50 per cento in più, al punto che infetta anche chi si cautela con le mascherine. Tra le categorie in via di tutela ci sono ora anche gli insegnanti. Inevitabile lo sconcerto per aver autorizzato l’insegnamento ‘in presenza’, solo pochi giorni prima di iniziare la vaccinazione. Non meno l’incapacità di impedire le ‘ammucchiate’ della movida, le feste di matrimonio con folle di invitati.  Evidente, il mondo non può e forse non vuole somigliare alla Cina di Whuan, al miracolo di trenta milioni di suoi cittadini esposti alla prima devastante fase della pandemia, sconfitta grazie a un lockdown senza la minima trasgressione. Per fortuna non somiglia neppure agli Stati Uniti di Trump, al Brasile di Bolsonaro, alla Gran Bretannia di Johnson prima che si ravvedesse, all’Italia di Salvini in prolungata empatia con i negazionisti.

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