Dall’autorevole “The New England Journal of Medicine” arriva la conferma che esiste un nesso tra inquinamento ambientale e insorgenza del coronavirus.
Il collegamento era già emerso in uno studio dell’Università di Harvard; adesso si hanno ulteriori, documentati riscontri che pongono in risalto il ruolo estremamente negativo giocato dal particolato atmosferico, la cui negativa presenza si registrata soprattutto in zone industriali come quelle padane.
Stando al rapporto, l’inquinamento da particolato (soprattutto il PM2.5) agisce da “facilitatore” dell’epidemia in due modi: diretto, danneggiando la salute, e indiretto, agendo da veicolo del virus.
Ecco cosa viene sottolineato dai ricercatori: “la trasmissione via aerosol e superfici contaminate di SARS-CoV-2 è plausibile poiché il virus può rimanere vitale e infettivo per ore negli aerosol e per giorni sulle superfici”.
In condizioni di stabilità atmosferica ed alte concentrazioni di particolato, come quelle tipiche delle regioni più colpite dal virus, le micro goccioline infettate contenenti il coronavirus possono stabilizzarsi sul particolato, creando degli agglomerati ed aumentando la persistenza del virus nell’atmosfera.
A questo punto, il livello di inquinamento si trasforma in una sorta di “misura” per calcolare il numero dei possibili contagi.
Tutto ciò porta ad una necessaria azione di decarbonizzazione nel settore dei trasporti e riduzione dell’inquinamento dovuto al riscaldamento. Nonché a dover considerare gli effetti che vengono prodotti nell’ambiente dagli allevamenti intensivi. Nella pianura padana si concentra circa l’85 per cento degli allevamenti di suini e il 75 per cento di bovini.
Scopri di più da La voce Delle Voci
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.