Da trent’anni la politica di casa nostra è incapace di partorire una vera normativa sugli appalti. Solo scartoffie indecenti per un paese civile ispirato a criteri di trasparenza e legalità.
Codici, codicilli, nome e normucole che popolano una selva inestricabile, nella quale affondano le imprese serie e fanno affari quelle border line, in forte odoro mafioso. E’ il Belpaese.
La fresca normativa in cantiere, stando alle prime anticipazioni, è poi il paggio del peggio.
Si tratta di modifiche rispetto al pacchetto elaborato dal governo guidato da Matteo Renzi, titolato “Regolamento di esecuzione, attuazione e integrazione” del codice degli appalti, approvato a metà 2016 e ora, appunto, in fase di rielaborazione da parte dell’esecutivo giallorosso.
Partiamo dai numeri, che subito danno il senso della doppia follia: sia quella scaturita dall’esecutivo renziano sia quella adesso in fase di parto.
Ora sfiorano l’incredibile tetto di 500 le norme che regolano gli appalti pubblici. Una cifra monumentale, indigesta per qualsiasi computer, figurarsi se applicabile per le aziende di casa nostra. Ma per gettare fumo negli occhi tutto fa brodo.
Aumentano anche gli articoli, che da 220 passano a 270, tanto per far proliferare ancor più le burocrazie.
Ecco qualche chicca.
Vanno tanto di moda le analisi costi-benefici, come ha dimostrato la story dell’Alta Velocità. Ma in negativo, perché quell’analisi non serviva, e non poteva servire, a niente: non potendo comprendere tra i cosiddetti “costi” le possenti infiltrazioni mafiose negli appalti e gli altrettanto cospicui danni ambientali prodotti. Come calcolarli? Ma quell’analisi è bastata all’esecutivo gialloverde per approvare i progetti TAV Torino Lione, causa prima della rottura che ha portato al suicidio politico di Matteo Salvini (ora caso mai risorgente per il nulla circostante).
Ma cosa fa adesso il neo pacchetto appalti? Pone in via prioritaria la confezione, per tutti i bandi di gara relativi alle opere pubbliche, di una dettagliatissima “analisi costi benefici”. Che oltre ad essere del tutto inutile è anche ben poco praticabile da una media impresa che non saprebbe quali pesci pigliare. E immaginate per un’infrastruttura al Sud, o anche in Lombardia, viste le sempre più frequenti (da vent’anni) incursioni mafiose: come calcolare, appunto, il costo mafia? I subappalti regolare appannaggio di clan e ‘ndrine?
Passiamo alla giungla normativa. Alla marea cartacea (o informatica) che andrà prodotta per soddisfare le centinaia di richieste formali, si aggiunge anche un “elenco delle normative di riferimento”. Per la serie: gli ingegneri, geometri e progettisti di turno si dovranno, magicamente, trasformare anche in legulei di alto profilo, per allegare a tutti i faldoni anche il dettagliatissimo elenco di tutte le normative di riferimento, senza dimenticare una, pena la perdita di chance per l’aggiudicazione dell’appalto.
Siamo al massimo. I bandi di gara per opere pubbliche dovranno specificare “se la decisione della commissione aggiudicatrice è vincolante o no”. Per la serie: stiamo scherzando, all’esito della gara non si sa se il verdetto della giuria vale o no! Ai confini della realtà.
Con una totale indeterminatezza dei risultati dei bandi, e quindi una montagna di ricorsi amministrativi già in cantiere. Come se non bastassero quelli che già oggi intasano le aule dei già sgarrupati Tar, che sfornano sentenze come le sfogliatelle calde!
Passiamo al bollente tema dei “collaudi”. Bollente – si fa per dire – da almeno trent’anni. Quando, per fare un solo esempio su tutti, a metà ani ’80 in Campania scoppiò lo scandalo delle commissioni di collaudo per le opere del dopo terremoto, un affare da 70 mila miliardi di vecchie lire (poi lievitati of course nei decenni seguenti): all’epoca balzarono agli onori le figure dei giudici-collaudatori, caso mai prima stipendiati a botte da milioni di vecchie lire e poi impegnati a giudicare quelle stesse opere!
Ma veniamo ai collaudi odierni. Fra i mille commi previsti non ce n’è uno, uno solo, che renda obbligatorio, per i membri delle commissioni di collaudo nominati dagli enti pubblici, la laurea in ingegneria, architettura o simili. Basta un diplomino. Tutto ciò – secondo alcuni esperti – per favorire quella burocrazia amministrativa che fa tanto clientelismo un tempo Dc e oggi diventato prassi per la inconsistente classe politica di casa nostra.
Insomma, al peggio non c’è mai fine.
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