Ne registriamo un’altra delle sue. Il ministro dei beni artistici, il signor Bonisoli, è un’altra aquila dello paranoico governo gialloverde, che annovera un premier fantoccio, un vice “Incompiuto” da scuola serale per seguire lezioni di grammatica, un secondo vice razzista con simpatie mussoliniane, Toninelli, ministro delle infrastrutture in stato confusionale, il bigotto e omofobo Fontana, il loro collega Tria, responsabile della gestione finanziaria del governo costretto a far crescere il deficit del Paese, pena il “licenziamento” e un portavoce sorpreso a più riprese a registrare audio indegni di chi gestisce, strapagato, la comunicazione istituzionale. Eccetera, eccetera.
L’ultima di Bonisoli, che finge di ignorare gli evidenti benefici derivati dalla nomina di responsabili di statura internazionale alla guida di musei e siti archeologici, commette il primo peccato mortale cancellando l’iniziativa di Franceschini, suo predecessore, dell’ingresso gratuito nei siti di interesse artistico. Da buon cristiano si pente, ma parzialmente, indotto a ricredersi dal “no” al diktat dei direttori nominati attraverso una selezione internazionale, come accade in tutto il mondo per ruoli prestigiosi e impegnativi. Bonisoli ci rifà: “Non ci servono più direttori stranieri”. Risultato? Potremmo ritrovarci con personaggi italiani dell’apparato burocratico di settore a dirigere come hanno fatto, o meglio non hanno fatto in passato, gli scavi di Pompei, la Reggia di Caserta, il Museo di Capodimonte eccetera, eccetera. Per capirci, Bonisoli è il tipo che nei giorni scorsi ha paragonato il dramma dei migranti alla gramigna, a erbaccia che infesta le piante utili, cioè gli italiani.
In quattro righe. Lo spread è vicino a quota 300 e brucia decine di miliardi degli italiani, l’andamento della borsa è all’ingiù, come il pollice verso dei morituri, in discesa negativa e l’Incompiuto isterico Di Maio pensa di cavarsela accusando i media di allarmismo terrorista.
Ai ferri corti. Tria, pavido ministro dell’economia, abbrevia la missione di Bruxelles tesa a illustrare la manovra. Torna dalle nostre parti (per tentare aggiusti ai conti del Def), ridimensionato da Junker e in generale dai ministri finanziari dell’euro gruppo che condannano l’azzardo del governo italiano di sforare il deficit di bilancio al 2,4 per cento. Junker paventa addirittura che la manovra, così come è stata sottoposta al giudizio della Comunità, minacci la fine dell’euro con drammatiche conseguenze descritte a più riprese dagli economisti. Tria è stato sotto pressione, perché l’Italia rispetti i vincoli europei di bilancio. Junker collega il rischio Italia al fallimento della Grecia. E l’Incompiuto Di Maio? Accusa la Commissione Ue di terrorismo per agitare i mercati finanziari, classico rifugio di chi non sa che dire nel “complottismo. Il Ce l’ho duro Salvini, che dio l’abbia in gloria e lo trattenga tra inferno e purgatorio più a lungo possibile, con l’abituale disprezzo per la realtà e le istituzioni ha replicato con una frase da schiaffi “In Italia nessuno si beve le minacce di Junker”. Se la bevono, purtroppo i differenziale dello spread (schizzato a 290), che dilapida risorse finanziarie degli italiani e la borsa di Milano in rosso. L’attendibilità del governo e del suo decreto, in alto mare dopo l’euforia grillina in chiave Palazzo Venezia, è nella provvisorietà del documento e in modo emblematico nei dati scritti a matita relativi al rapporto deficit Pil al 2,4 percento e alla crescita, stimata per il 2019 all’1,6 per cento. Tria ha la gomma per cancellare a portata di mano. E anche questa è l’Italia in gialloverde.
Il titolo determinante di Gianluigi Paragone, per accedere alla Rai è a chiare lettere citato nel curriculum: provenienza da “La Padania”, organo d’informazione della Lega (cioè segnalato dalla segreteria del Carroccio), poi la sponsorizzazione grullina (e grullina non è un errore di battitura), perciò eletto al Senato e indicato dai 5Stelle per la commissione di vigilanza della Rai. Il focoso campione di salto della quaglia protesta con veemenza contro la scelta del TG1 di aprire il giornale con il resoconto della manifestazione romana del Pd in piazza del Popolo. La protesta è monca, perché il “guastatore” per conto di Di Maio non dice, perchè non sa, cosa secondo lui avrebbe dovuto aprire quell’edizione del Tg1. Paragone ce l’ha anche con Fazio per l’intervista all’economista Cottarelli, che finalmente ha chiarito dall’alto della sua competenza e della qualità di comunicatore, cos’è la manovra economica del governo e i suoi limiti. Tira aria di epurazioni in Rai. Risponde a Paragone il Pd. “L’attacco di M5S al Tg1 è un gravissimo tentativo di intimidazione e ingerenza nei confronti dell’autonomia delle testate giornalistiche Rai. Con la scelta di Foa presidente Rai, in combutta con Salvini e Berlusconi, M5S dimostra di preferire il modello ‘propagazione fake news’, che gli ha permesso di dilagare, ma che è il contrario di quel che serve ad una corretta informazione”. Il dem Michele Anzaldi, segretario della Commissione di vigilanza: “Invece che insultare ingiustamente i giornalisti del Tg1, Paragone dovrebbe apprezzarne la serietà. Nonostante l’assenza di un piano editoriale, continuano a fare il loro lavoro con impegno e rigore. L’elezione nei 5 Stelle ha trasformato Paragone, da giornalista anomalo con chitarra al collo, a triste ragioniere tendenzioso”
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