Napoli è opportunità per un dibattito all’infinito, inesauribile. Ha schiere di agguerriti denigratori e manipoli combattivi di esegeti, cioè il top della conflittualità. Da una parte la masnada di bastardi che frequentano gli stadi del calcio con l’unico o quasi unico obiettivo di dar sfogo al peggio della società deviata, manifestamente razzista. Conta su fazioni di energumeni in mezza Italia e per non far nomi gli ultra di Verona, Bergamo, folte frange di laziali e romanisti. E’ teppaglia che sventola drappi neri con simboli fascisti e si augura che il Vesuvio seppellisca Napoli, che insulta la Boldrini, tifa perché i suoi calciatori spezzino le gambe agli avversari e satura i social di volgarità. Ultima impresa l’augurio che Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica, non superi il grave problema che ha colpito la sua forte tempra.
E’ uno strampalato razzismo, plateale e stolto nelle offerte di affitto delle abitazioni che precisano “non ai meridionali”, nell’ambiguità di ritenere il proprio dialetto l’unica variante consentita dell’italiano di Dante e di etichettare come napoletano chiunque sia originario di regioni a sud di Roma.
C’è poi un certo sociale parecchio a nord della capitale che dà credito al sud del folclore, della pizza e mandolino, dei vicoli che dai quartieri spagnoli piombano sulla via Toledo, tappa fotografica obbligatoria per mostrare panni stesi e festoni pubblicitari di trattorie tipiche al rientro, nel corso di serate ludiche con amici e parenti. Culmine di questa stramba lettura di Napoli è stata la fortuna decretata alle prime fatiche letterarie di De Crescenzo, alla città raccontata nelle sue carinerie prossime alla comicità spontanea di scritte, personaggi, aneddoti, cioè di un suo segmento che ha purtroppo contaminato un bravo uomo di cinema: nel suo “Napoli velata”, Ozpetek ha concentrato stereotipi di una città che non esiste più e che il cinema ha raccontato cinquant’anni e più anni fa: il parto dei “femminielli”, la tombolella, la fattucchiera.
E c’è il nord dell’invidia, per l’occupazione massiva dei meridionali in molteplici ruoli primari.
Questo irresistibile mix di mal disposizione ha sponde solidali, non di poco conto, nella napoletanità del lamento: il sindaco? Pessimo. I napoletani? Rumorosi, privi di educazione civica, in una città che offre servizi mediocri, caos, disfunzioni e dove il suo stesso patrimonio è trascurato per disamore, dove non c’è una compagnia teatrale stabile che metta in scena il repertorio di grandi come Eduardo, Viviani, Scarpetta, o revival di un genere certamente non nobile qual è stata la sceneggiata, ma profondamente popolare. Dove è desaparecido il Festival della canzone napoletana, nonostante Pino Daniele, Gragnaniello, D’Alessio e D’Angelo, la vocazione di grandi firme a interpretarla (Mina, Dalla, Mia Martini, grandi tenori); dove è stata gettata via la tradizione della Piedigrotta, che rinnovata avrebbe notorietà e seguito quanto e più del carnevale di Viareggio e Venezia, dove non c’è un luogo stabile dove seguire le canzoni classiche napoletane.
Sul fronte opposto? La fantastica invasione del turismo da tutto il Paese e dall’estero, la qualità in crescita esponenziale di attrattori che i manager nominati per competenza e non per avanzamento di carriera hanno valorizzato come Capodimonte, il Museo Archeologico Nazionale, gli Scavi di Pompei). In più, proprio la vincente diversità di Napoli, che nel suo caos tutt’altro che calmo affascina chi le si avvicina, anche solo per curiosità
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