NEOLIBERISMO – STORIA DI UNA CONTRORIVOLUZIONE

Pubblichiamo un interessante articolo del politologo Aldo Giannuli

A cavallo fra i sessanta e i settanta, tutte le società occidentali furono attraversate, in varia misura, da una ondata di movimenti di protesta: la generazione nata dopo la guerra metteva in discussione tanto gli equilibri sanciti dalla guerra fredda quanto la stessa legittimità del sistema sociale e politico.

A questa si aggiunse, in molti paesi, una ondata di rivendicazioni salariali senza precedenti e poi, una serie di movimenti di genere, di dissenso religioso, di ceti marginali ecc. Questo magmatico ribollire di istanze, affermazioni di identità e proteste non riuscì a darsi un progetto politico.

La “stagione dei movimenti” si concludeva definitivamente nella seconda metà degli anni settanta: già nel 1975, il movimento era in pieno riflusso in Germania, Inghilterra, Usa, Francia, dopo qualche anno seguì l’Italia.

Nello stesso 1975, si svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilateral Commission (nata due anni prima, come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari, industriali di Usa, Europa e Giappone).

I tre relatori principali (il francese Michel Crozier, l’americano Samuel Huntington ed il giapponese Joji Watanuki)[1] si trovarono concordi nel diagnosticare la crisi come prodotta dal “sovraccarico del sistema decisionale” – che rendeva lo Stato facile preda del ricatto dei più diversi gruppi sociali – e dal conseguente indebolimento dell’autorità governativa.

Da tale diagnosi discendeva la prescrizione di una riforma complessiva che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, ridesse funzionalità decisionale e prestigio all’esecutivo, in modo da consentirgli di agire come riaggregatore della domanda sociale. In questo quadro, rafforzamento dell’esecutivo a scapito del Parlamento, “raffreddamento” degli istituti di democrazia diretta (come il referendum), regolamentazione legislativa dei conflitti di lavoro, erano altrettanti passaggi necessari sul piano istituzionale.

Questa analisi basata sul “sovraccarico ed anarchia della domanda politica” e sulla “crisi dei meccanismi della decisione” venne ripresa anche dal sociologo tedesco Niklas Luhmann e dallo storico Italiano Giuseppe Are[2].

Questa interpretazione fu variamente contestata da autori che proponevano modelli ben più sofisticati: da Alain Touraine a Samuel Eisenstadt, da Seymour Lipset ad Alessandro Pizzorno, da Sidney Tarrow ad Alberto Melucci. E, in effetti si trattava di un modello scientificamente molto debole: sovraccarico della domanda rispetto a quali parametri? Quelli della ricchezza prodotta? Ma perchè non prendere in considerazione la curva della distribuzione? Che tale crescita della domanda fosse in eccesso rispetto alle esigenze dell’accumulazione era dato ma non dimostrato.

Nè, per la verità, è chiaro cosa si intendesse per “crisi dei meccanismi della decisione” se non l’esigenza di sottrarre una quantità di decisioni alla procedura democratica per portarle all’interno di quello che Pizzorno chiama “il nucleo cesareo del potere”.

Ma la debolezza teorica del modello era largamente compensata dalla sua sintonia con gli umori del ceto politico e del potere economico, sia europeo che americano. In breve, questa lettura della stagione dei movimenti come sorta di “scapigliatura” più ricca di eccessi e di aspettative irragionevoli, di ideologismi esasperati e d’inaudita violenza politica che di reale aspirazione ad un diverso modello di democrazia, divenne la principale vulgata.

Si avviava, in questo modo, una sorta di “controrivoluzione culturale” tesa a restaurare quel che la contestazione aveva intaccato.

In particolare, i movimenti del sessantotto avevano immaginato un capitalismo alla sua ultima stagione, privo di ogni residua legittimazione, con meccanismi definitivamente inceppati, che sopravviveva solo grazie al brutale sfruttamento neo-coloniale dei paesi del terzo mondo ma, ormai, stretto fra l’ondata di proteste sociali all’interno e le lotte antimperialiste al suo esterno. Su alcune riviste (come la “Monthly review”) comparivano articoli che prevedevano il collasso del sistema negli Usa entro il confine del decennio.

Una descrizione scarsamente realistica che non teneva assolutamente conto delle capacità di recupero del sistema capitalistico, dell’approssimarsi di una nuova rivoluzione industriale basata sull’elettronica e l’automazione, della sfavorevole evoluzione del quadro politico internazionale e di molti altri fattori.

Ma, per quanto tali aspettative fossero destinate ad una rapida smentita, tuttavia esse avevano sedimentato un giudizio abbastanza diffuso sull’esaurimento del capitalismo come sistema vitale e sulla sua sostanziale ingiustizia sociale.

La rivoluzione neo-liberista, che già era in gestazione a Wall street e nella City, non avrebbe potuto decollare senza il necessario consenso sociale che esigeva una profonda ri-legittimazione del sistema.

D’altro canto, non era difficile prevedere che lo smantellamento dello stato sociale, per quanto graduale, avrebbe potuto riaccendere quella conflittualità che si era appena sopita. E, dunque, accanto ad una decisa opera di scomposizione del blocco sociale lavorista che lo sosteneva, si imponevano adeguate riforme istituzionali che ridessero al sistema “capacità di decidere”. Ed anche qui l’operazione richiedeva adeguati supporti culturali, tanto nella fase della progettazione quanto in quella della successiva raccolta di consenso.

Occorreva rimuovere quelle premesse culturali che avevano retto il compromesso socialdemocratico del welfare, prodotto lo “stato sociale di diritto” emerso dopo la guerra, riconsacrare il potere profanato dalla contestazione sessantottina.

La storia fu il principale terreno sul quale avvenne questa battaglia culturale ed il revisionismo storico fu il ferro di lancia culturale del neoliberismo.

Non si trattava solo di liquidare l’eredità culturale di Marx o Lenin, ma bisognava andare molto più in là, disfacendosi anche di Kelsen e di Keynes e poi, via via, cancellare anche il liberalsocialismo di Rosselli, il riformismo di Kautski e Bernstein, la democrazia radicale, sino alle origini, identificate nel fantasma del giacobinismo.

La storia tornava ad essere strumento del Principe e, per il resto, il neo liberismo ha promosso una sostanziale rimozione della storia come metodo per comprendere la realtà sociale. Il neo liberismo vive nella dittatura di un presente eternizzato, che, peraltro, senza storia diventa incomprensibile.

 

www.aldogiannuli.it


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