Lamentarci, protestare, associarsi nella contestazione? E a che serve in questo Paese anomalo che ha il più smisurato patrimonio storico-artistico ma è tra gli ultimi per numero di lettori e non solo? A niente se si osserva la posizione in classifica del Bel Paese per la qualità dei servizi. Vediamo il dettaglio, una volta assorbito il colpo allo stomaco di trovarci sul trentaduesimo gradino della graduatoria europea, scavalcati tra gli altri da slovacchi, turchi, romeni, perfino dai derelitti greci: siamo ultimi per il costo della fornitura di acqua (34,8 contro i 13,5 dell’aria europea), per la raccolta rifiuti (19,2 contro 7,9) e altri parametri. A osservare l’indice di gradimento dei cittadini italiani si scopre che in testa c’è Verona (valore 58), seguita da Bologna e Torino (55, 51), da Napoli b(solo 28) Roma, addirittura peggio (24) e Palermo (19). Insomma la solita storia delle due Italie, una delle quali, il Sud, privo di pari opportunità economiche e dunque di sviluppo, nei confronti del Nord. In media, sono informazioni del quotidiano la Repubblica, gli italiani sono soddisfatti per il 39 per cento del proprio governo amministrativo, contro il 61 dell’Europa. Corollario del deficit è un esempio in corso. Napoli invasa dal turismo internazionale come non accadeva da decenni, ma servizi fallimentari e negozi chiusi per ferie nel momento di maggior bisogno dei visitatori. E gli enti del commercio, il Comune? In ferie anche loro…lontani da Napoli, ovviamente. A mettere tutte e cinque le dita nella piaga ci pensa il Fatto Quotidiano, a conferma di quanto è accertato da tempo e cioè che l’Italia investe troppo poco nell’istruzione. Certo, il caso dei college americani, da imitare per qualità del rapporto complessivo degli studenti, è un esempio raro di attenzione per la crescita culturale dei giovani. Università come Oxford, Cambridge, Eton (la una scuola privata più famosa e prestigiosa del Regno Unito), sembrano irraggiungibili, ma…brucia il contrario e cioè l’esiguità di interventi per rendere di eccellenza gli studi in Italia. Esperti di economia sostengono che l’investimento nell’educazione genera profitti. In generale nella misura del 50 per cento, in Italia del 30% della somma investita. L’analisi valuta poi che le famiglie italiane spendano per l’istruzione dei figli il 5,5% del Pil mentre in Spagna il 6% , in Francia o Irlanda quasi il 7% come in Gran Bretagna e Stati Uniti, mentre sfiora l’8% nella Corea del Sud e in Danimarca. Le università di maggior prestigio restituiscono in termini di occupazione valori interessanti. I costi dell’università privata Bocconi, fino a 85mila euro, rendono in busta paga circa 45mila euro all’anno. Il dato opposto: tra i lavoratori sottopagati c’è uno sconfortante 44% di laureati in scienze sociali e materie umanistiche, il 57% di dottori in economia e statistica, il 33% di ingegneri. In ogni caso studiare conviene dal momento che aumenta del 40% le chance di trovare lavoro. L’Italia divisa si conferma: a un anno di distanza dal titolo di studio al Nord il 74% di laureati trova occupazione contro il 53% dei meridionali. Disparità assurda anche tra retribuzioni. Primo stipendio al Nord 1.290 euro, al sud 1.088. Trascorso un anno dalla fine degli studi nelle regioni del Nord è occupato il 74% dei laureati mentre nelle regioni del Mezzogiorno non si va oltre il 53%. Al Nord il primo stipendio è in media di 1.290 euro, al Sud di 1.088 euro. Dopo 5 anni lavora l’89% dei laureati residenti nelle regioni settentrionali e il 74% di quelli che abitano al Sud. Le retribuzioni salgono rispettivamente a 1.480 euro e a 1.242 euro. Con chi lamentarsi?
Nella foto la classifica degli investimenti
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