Viene dalla Francia una sonora lezione di antifascismo e la famiglia Le Pen si lecca le ferite. Colta da isterismo da sconfitta (neppure una regione conquistata al ballottaggio), blatera di intimidazioni subìte, accusa l’alleanza spuria tra socialisti e moderati di complotto e in sostanza non capisce che i francesi hanno sventato il pericolo di finire nelle mani di fanatici razzisti, antieuropei e assetati di autoritarismo franchista, mussoliniano. All’Italia della frammentazione politica che si disperde in mille rivoli per nulla ideologici e piuttosto tenuti in piedi da opportunismo, la reazione francese al rischio Le Pen servirà a contrastare l’ammucchiata tra quel che resta di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e spezzoni di moderazione nostalgica dell’era Dc? I dubbi sono d’obbligo. Grillo e i suoi giovani rampanti sbavano all’idea di mettere in parentesi la fase dell’opposizione senza se e senza per inebriarsi del profumo che emana la gestione del potere, Sel difende a denti stretti la specificità di unico erede della sinistra storica, Alfano e compagni temono la marginalità elettorale in assenza di rappresentanza ufficiale della moderazione, frammenti irrequieti di ex Pd lavorano per una visibilità ripagata da consenso tra i delusi del renzismo. Insomma è un guazzabuglio e agevola l’esistenza letale di Salvini della sua strategia di aggregazione del pantano dove nuotano il razzismo, la conservazione dei privilegi per chi ne ha, il disfattismo anti Ue, omofobia e xenofobia. L’unione che fa la forza non è certo elisir di lunga vita della democrazia, ma in stato di emergenza, e lo è l’onda destrorsa che percorre quote del Vecchio Continente, ogni antidoto appare lecito per sventarne l’insorgenza.
Nella foto Marine Le Pen
Pd e caos preelettorale
Torna di attualità il clima ondivago dei Dem a proposito di candidature per il governo di capisaldi della geopolitica italiana quali sono le città di Roma, Milano e Napoli, Torino. Nel capoluogo campano il caos è padrone di una crisi che parte di lontano e ha ridimensionato la storica leadership dei democratici, dal tempo del “miracolo” di un sindaco, Maurizio Valenzi, primo comunista alla guida del capoluogo più a sud d’Europa. L’onda arancione che ha insediato a Palazzo San Giacomo De Magistris ha dato il colpo di grazia al Pd, dilaniato da faide interne, estraniato dal rapporto con il territorio, spazio storicamente primario di consenso, frammentato in correnti, politicamente incomprensibile. All’approssimarsi della scadenza del mandato di De Magistris, il Pd è entrato nella fase acuta di una fibrillazione sconcertante che il Nazareno non ha saputo o voluto sottrarre al disorientamento totale di dirigenti, iscritti e pretendenti al trono. E’ spuntata l’auto candidatura di Bassolino che a prescindere dalla compatibilità con il suo percorso istituzionale ha sollevato un putiferio di reazioni, una delle quali ad personam, avrebbe introdotto nella strategia elettorale del Pd il divieto di candidarsi per la seconda volta a cariche istituzionali già occupate qual è appunto il ruolo di sindaco. Il veto si è miseramente misurato con la pressante richiesta a Pisapia di bissare l’esperienza di sindaco di Milano, con la decisione di Zingaretti di duplicare l’incarico di presidente della giunta regionale del Lazio e in questi giorni con l’esternazione di Fassino che aspira a governare Torino con un secondo mandato. Lo stato confusionale che precede il voto di primavera segnala con evidenza l’anomalia del doppio bastone di comando di Renzi, alle prese con la Presidenza del Consiglio e la segreteria del partito. Troppo davvero e le ricadute sullo stato di salute del Pd sono evidenti, come confermano la chiusura a ripetizione dei circoli (c’erano una volta le sezioni) e il calo vertiginoso di iscritti.
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