LA STORIA DELL’UOMO A UN PASSO DA DIO E DEL SUO “ INQUISITORE”

La vera storia della (non) inchiesta milanese sul superfaccendiere Chicci Pacini Battaglia nel profetico libro “Corruzione ad Alta Velocità” di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato che oltre quindici anni fa alzava il velo sui maxi imbrogli della Tav, solo oggi alla ribalta per le bollenti indagini della procura di Firenze. Ecco tutti i passaggi salienti, pagina per pagina.

Da pagina 7. “Tangentopoli ha certamente influenzato la crisi del sistema politico italiano, ma non l’ha determinata. La crisi covava da anni e la corruzione politica era uno dei fattori, non il solo. Il sistema politico è stato corroso non solo da un personale politico usurato dal tempo ma da affaristi occulti legati spesso a poteri occulti. Per fare un solo esempio, un personaggio come Pierfrancesco Pacini Battaglia, di cui tanto si parla in questo libro. Pochissimi ‘intimi’ ne conoscevano l’esistenza, ma egli esercitava un potere corruttivo enorme, con complicità vaste in tutti i campi dell’amministrazione pubblica e della magistratura”.
Pagina 87. “In un’altra intercettazione Pacini Battaglia, parlando con un imprenditore, fa riferimento alla difficoltà di costituire fondi in nero. Poi, affrontando la questione dell’inchiesta milanese ‘mani pulite’, dice: “ti spiego, io sono convinto che… noi siamo usciti da, voi siete usciti da mani pulite o io sono uscito da mani pulite solo perchè si è pagato…”.
Pagina 93, a proposito delle verbalizzazioni dell’ex presidente Agip Raffaele Santoro: “Esiste da tempo – racconta l’ex dirigente – una sorta di ‘cartello’, quantomeno un patto di non belligeranza, tra quattro società di ingegneria, formato da Snamprogetti, Tpl, Ctip e Techint. Il garante e arbitro è il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia”. Poi: “Il racconto di Santoro resterà lettera morta. Pacini Battaglia farà la sua comparsa (una vera comparsata durata appena dieci ore, giusto il tempo di un interrogatorio) solo nell’affare dei fondi neri Eni”.
Pagina 95: “In questo intreccio di mazzette resta sempre centrale la figura di Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo lo scopriranno i magistrati di Perugia. Ma perchè, pur incappando ben cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure, sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl cinque miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. Due miliardi, aveva riferito Cragnotti, li aveva tenuti per sé, due erano finiti a Gardini, e l’ultimo a Necci e Pacini Battaglia. Ma ascoltato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, Pacini Battaglia nega tutto e sconfessa Cragnotti. Ed ecco la seconda stranezza: anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel ‘rito ambrosiano’ officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare, ma soprattutto a fare dei nomi e a fornire dei presici riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Mentre un altro imputato, che dello stesso fatto negava tutto, venisse prima creduto e subito dopo lasciato libero di inquinare le prove. E di corrompere – secondo i pm di Perugia – diverse altre persone. Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, ‘come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite’. In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Di Pietro, da pm a Milano, avesse favorito il banchiere, omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando di fatto personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria con la Svizzera che avrebbe consentito di scoprire che presso la banca la Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili dell’Eni e della Tlp. Ma il gip di Brescia Anna Di Martino ha prosciolto Di Pietro da tutte le accuse con la formula ‘perchè il fatto non sussiste’”.
Pagina 97. “Un’altra domanda s’imponeva, rimasta senza risposta: come mai Di Pietro lasciò Pacini Battaglia libero? Non c’era per il faccendiere, fulcro di tutti gli imbrogli dell’Enimont, quel rischio d’inquinamento delle prove tanto spesso tirato in ballo per arrestare e tenere in galera tanti personaggi dello spessore criminale decisamente inferiore a quello di Pacini Battaglia? Rischio che ordinanze del tribunale di Milano del 1 dicembre 1997 e del gip di La Spezia e di Perugia hanno confermato? E’ solo una coincidenza che anche costui fosse difeso dal solito avvocato Peppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, lo stesso legale per il quale i magistrati di Perugia chiederanno, senza però ottenerla, l’incompatibilità nella difesa del suo assistito? E come mai il cervello così carico di saggezza popolare del pm milanese non venne neppure sfiorato dall’idea di procedere ad una serie di confronti incrociati tra Cragnotti e Pacini, tra Cragnotti e Necci e tra Necci e Pacini? Perchè Di Pietro lasciò che un calibro da 90 come Pacini venisse interrogato da Borrelli che poco o nulla sapeva dei dettagli della vicenda di cui Cragnotti aveva parlato? Perchè, guarda caso, i nomi di Pacini, Necci e Cragnotti verranno stralciati dal processo Enimont? Perchè in questa vicenda Di Pietro non ha usato quella sua personalissima tecnica, ampiamente collaudata, e cioè tenere dentro tutti: Cragnotti, reo confesso, Necci, chiamato in correità e Pacini Battaglia, chiamato anche lui in correità? Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo che un brivido mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per suicidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicidio. Altri ancora – è proprio il caso di Cragnotti e Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno visto mai (il secondo).
Pagina 98, a proposito dei vari filoni d’inchiesta sull’alta velocità. “Nel corso di un vertice per chiarire alcune sovrapposizioni di indagine, vertice che si svolge nel palazzo di giustizia della capitale e al quale partecipano diversi sostituti di Roma e Milano, viene deciso lo sdoppiamento dell’appena nata inchiesta sull’alta velocità. Al vertice partecipano anche Giorgio Castellucci e Antonio Di Pietro. E’ stato lo stesso Castellucci, nell’ottobre del 1996, a spiegare come andarono le cose. Il magistrato romano nel ’93 aveva appena aperto il fascicolo sull’alta velocità, ma Di Pietro – racconta Castellucci – gli confidò che su quell’argomento aveva cominciato a parlare l’imprenditore Vincenzo Lodigiani, secondo il quale intorno al progetto Tav c’era una vera e propria lottizzazione tangentizia. Fu così che a Roma rimase l’inchiesta sulla correttezza delle procedure con cui era stata costituita la Tav spa di Ercole Incalza, mentre quella sugli appalti per l’alta velocità ferroviaria finì a Milano nelle mani di Di Pietro. La tranche d’inchiesta presa in carico da Di Pietro a tutt’oggi (1999, ndr) non si sa che fine abbia fatto. Di Pietro se ne spoglia quando nel dicembre 1994 abbandona la toga”.
Pagina 99. “Sospeso Castellucci dal suo incarico, la tranche romana passa ad un altro pm, Giuseppe Geremia. Costei, per prima cosa, vuole vederci chiaro in quella strana spartizione di atti giudiziari avvenuta nel 1993 tra Castellucci e Di Pietro. Alla Geremia non era scappato un particolare: non era la prima volta che Di Pietro si appropriava di un’inchiesta nata a Roma. Era già accaduto. Era successo con l’inchiesta sui soldi sparito della cooperazione, du cui era titolare il sostituto procuratore di Roma Vittorio Paraggio. (…) L’11 giugno 1993 Paraggio aveva ricevuto un fax da Di Pietro – ma l’ex pm milanese ha negato questa circostanza – nel quale lo invitava a trasmettergli gli atti relativi alla posizione di Pierfrancesco Pacini Battaglia, che Paraggio aveva iscritto nel registro degli indagati assieme, tra gli altri, all’allora segretario del Psi Bettino Craxi, all’ex ministro degli Esteri, anche lui socialista, Gianni De Michelis e al finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein. Nell’abitazione parigina di quest’ultimo, intestata all’attrice Domiziana Giordano, erano stati trovati documenti, alcuni dei quali si riferivano proprio ad Antonio Di Pietro. Paraggio aveva indagato Pacini Battaglia a proposito di un progetto di cooperazione che si sarebbe dovuto realizzare in Africa e di cui si occupava l’imprenditore Paolo Ciaccia, titolare della Ctip. Ma nel fax – stando alla versione di Paraggio – Di Pietro insisteva per avere le carte relative al banchiere italo svizzero. Il motivo: Pacini Battaglia, indagato anche a Milano, nell’ambito del processo Enimont, stava collaborando. Era quindi opportuno evitare qualsiasi forma di sovrapposizione. A quel punto Paragio aveva deciso di stralciare la posizione del finanziere e l’8 luglio 1993 l’aveva inviata per competenza alla procura di Milano. (…) Basterebbe questa nuova invasione di campo di Di Pietro per far drizzare le orecchie a chiunque. Prima la faccenda dell’alta velocità in cui Pacini Battaglia ha avuto un ruolo determinante, poi quella della cooperazione, dove il pubblico ministero punta la sua attenzione proprio su di lui, sul tanto discusso banchiere. Se una coincidenza è una coincidenza, due diventano un indizio. Almeno così ragionava Antonio Di Pietro quando faceva il magistrato. Ma c’è di più, molto di più. Che Roma stesse indagando su Pacini Battaglia fin dal 1993 lo scoprono i sostituti di La Spezia Cardino e Franz. Sono loro a chiedersi che fine avrà fatto quell’inchiesta. Prendono quindi contatto con la procura di Roma, scoprendo che quegli atti sono stati inviati da Praraggio a Milano.Cercano allora i colleghi di Milano. Di Pietro non è più ormai da tempo in magistratura, è vero, ma quelle carte su Pacini Battaglia dove sono mai finite? I magistrati di Milano cadono dalle nuvole. Qui da noi sul faccendiere e sui suoi affari con la cooperazione non c’è proprio nulla. Si scopre così che quegli atti, quelle carte sono scomparsi. Spariti, volatilizzati. In altre parole non si trovano più. Risultato: certamente il più gradito a Pacini Battaglia. Per tre anni nessuno ha indagato su di lui. I magistrati di Roma perchè avevano stralciato la posizione, inviandola a Milano. Quelli del capoluogo lombardo perchè Pacini Battaglia era indagato nell’inchiesta sulla cooperazione e dell’inchiesta sulla cooperazione si occupava Roma. Ma ci sono altri atti che sono spariti. A Roma non si trovano più alcuni documenti sequestrati a Mach di Palmenstein. Già, proprio così, alcuni documenti facenti parte del dossier in cui si parla ancora di lui: Antonio Di Pietro”.
Pagina 103. “E’ così che il sostituto di Roma Vittorio Paraggio finisce nei guai. Sarà indagato dalla procura di Perugia e solo nel 1999 la sua posizione verrà archiviata. I sospetti su Di Pietro finiranno a Brescia. Archiviazione anche per lii. A scoprire l’arcano sono i pm di Perugia che scrivono: ‘ Gli atti relativi a Pacini (in tema di cooperazione) sono stati effettivamente trasmessi a Milano’, dopo che, su istanza di Lucibello, il pm Di Pietro chiese al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini in quanto stava offrendo rilevante collaborazione nelle indagini svolte dalla procura di Milano”.
Pagina 126, da una conversazione intercettata fra Pacini Battaglia e il suo precedente difensore, l’avvocato Marcello Petrelli. E’ Pacini che parla: “oggi come oggi noi siamo usciti da mani pulite pagando, intrafugnando. (…) quello che ti voglio dire… a me se acchiappano Lucibello e Di Pietro… hanno i soldi in Austria, io sono l’uomo più contento del mondo… vediamo di capirsi… io non ho sposato Di Pietro, né ho sposato Lucibello. A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato… a me se li buttano dentro tutti e due… mi fai l’uomo più felice del mondo”.
Pagina 127. “Il fatto certo è che Pacini Battaglia, pur inquisito dalla procura di Milano, negli anni 1993-95 non ha subito alcuna custodia cautelare. Così come è sicuro che l’indagine a suo carico venne svolta in via esclusiva , e comunque predominante, da Di Pietro (così come hanno affermato, con indiscutibile chiarezza, altri due magistrati del pool, Colombo e Greco). Altrettanto fondato è che per evitare di essere incarcerato Pacini si presentò spontaneamente al dott. Di Pietro, assistito dall’avv. Lucibello (frequentatore e commensale abituale del pm). C’è infine un’altra certezza: in concomitanza con questi fatti Pacini Battaglia provvide a rivendere, al prezzo di 4 miliardi e mezzo, all’imprenditore Antonio D’Adamo (anche lui amicissimo di Di Pietro) le azioni di una società a lui vicina, la Morave Holding. Ripetiamo: al prezzo di 4 miliardi e mezzo di lire, dopo che solo venti giorni prima le aveva acquistate dalla Atlantic Finance al prezzo doppio di 9 miliardi”.
Pagina 131, a proposito di telefonini. “Tra le tante schede Gsm, acquistate in Svizzera e distribuite da Pacini ai suoi numerosi amici, l’utenza Gsm n.041/892009854 è stata certamente usata da Di Pietro. Le schede Gsm svizzere avevano all’epoca una particolarità: rendevano praticamente inintercettabili i telefonini che le usavano. Queste schede erano tutte intestate a Henri Lang, autista di Pacini Battaglia. Una cosa è più che mai sicura. Né il magistrato Di Pietro, né l’avvocato Lucibello hanno mai dato una spiegazione convincente del come e del perchè sia potuto accadere che mentre Pacini Battaglia era indagato da Di Pietro, costui avesse in uso telefonini riconducibili all’indagato predisposti per evitare l’ascolto di orecchie indiscrete. (…) Perchè Pacini Battaglia, uno dei più grandi maneggioni viventi, pur essendosi già affidato ad altri studi quotati studi legali, sceglie come legale sulla piazza di Milano proprio lui, il per nulla quotato avvocato Lucibello, notoriamente legato però al famoso pm e giustamente orgoglioso di cotanta amicizia’. (…) (…) Perchè nei confronti dei conti privati di Pacini Battaglia non vennero mai concluse rogatorie internazionali? Perchè molte rogatorie richieste vennero classificate come non urgenti e quindi di ordinaria amministrazione? Perchè in alcuni casi allo stesso Pacini Battaglia venne consentito, tramite il suo legale, l’avv. Lucibello, di conoscere in anticipo le tematiche che sarebbero state affrontate nel corso degli interrogatori? Perchè nessuna seria indagine venne mai fatta nei confronti di Roger Francis, principale collaboratore di Pacini Battaglia? (…) Nel frattempo Pacini Battaglia sembrava interessato a proseguire nei suoi rapporti privilegiati con il suo amico ‘inquisitore’ divenuto ministro, liberandolo dalla presenza ingombrante di un suo collaboratore, un magistrato torinese, Mario Cicala”.
A proposito di inquisitori & inquisiti, chi non ricorda il drammatico sos lanciato da ‘O ministro in fin di vita? Quale grande amico voleva mai incontrare Paolo Cirino Pomicino prima di salutare il mondo? Il suo grande inquisitore Di Pietro, che lo aveva indagato proprio per la maxi tangente Enimont. Ma i rapporti Pomicino-Di Pietro sono ancora un’altra storia…

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