Fondi d’investimento, commissioni record in Italia – Finalmente indaga la UE

Elio Lannutti

Elio Lannutti

Per Adusbef e Federconsumatori, soprattutto nell’Italia dominata da una sorta di monopolio delle maggiori banche, notizia ottima l’indagine della Commissione Ue annunciata oggi dal vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, che  chiederà ai regolatori europei di fare luce su performance e tariffe dei fondi d’investimento, sia per una nuova regolamentazione del settore che per una maggiore concorrenza e migliori servizi ai consumatori.

Con i tassi azzerati sui depositi bancari, negativi su Bot ed alcuni titoli, i Fondi comuni di investimento, che secondo l’ultimo rapporto di Mediobanca dell’agosto 2015 hanno chiuso i loro bilanci con un utile lordo ante imposte di 11 miliardi di euro (8,8 miliardi di utile lordo nel 2013), diventano più attrattivi per i risparmiatori, che tuttavia devono stare attenti alle commissioni, molto più elevate anche degli Stati Uniti.

Prima di investire nei Fondi Comuni, prestare attenzione alle salate commissioni, di ingresso o di collocamento, che raffrontate con l’industria finanziaria americana, sono molto più costose ed a volte erodono  le performance di rendimento. Il rapporto di Mediobanca  conferma che i fondi italiani, con oneri medi di commissioni dall’1,2 fino al 2,7% sono molto più costosi dei fondi statunitensi, i quali  nel 2014 (dati ICI) sono stati pari allo 0,70% negli azionari (0,74% nel 2013, 0,83% nel 2010, 0,99% nel 2000 e nel 1990) e allo 0,57% negli obbligazionari (0,61% nel 2013, 0,64% nel 2010, 0,76% nel 2000, 0,88% nel 1990), mentre i monetari sono intorno allo 0,13% (0,17% nel 2013, 0,26% nel 2010).

Il volume delle commissioni addebitate ai risparmiatori italiani nel 2014, pari a 2,9 miliardi di euro, è incrementato rispetto a quello dell’anno precedente (2,5 miliardi); l’incidenza media sul patrimonio gestito è invece rimasta all’1,2% (1,4% relativamente ai soli fondi comuni aperti, livello anch’esso invariato). L’incidenza delle commissioni è analoga a quelli dell’anno di crisi 2008. I costi addebitati agli azionari (2,7%) flettono, seppur di poco, rispetto al massimo storico del 2013 (2,9%), principalmente per la ridotta incidenza delle provvigioni di incentivo (0,1% contro lo 0,4% nel 2013). Anche per i bilanciati (1,7%, in lieve calo rispetto all’1,8% del 2013) le commissioni permangono elevate, con gli obbligazionari che rimangono all’1,2% (massimo dal 2001).

I dati per i soli fondi aperti sono rispettivamente 6,4 miliardi di euro di utili lordi nel 2014 contro 5,7 miliardi nel 2013. Nel 2014 si è confermata la ripresa osservata nei due anni precedenti, con gli utili su titoli passati da 5,7 a 10,9 miliardi di euro. Sono stati necessari 6 anni perché le pesanti perdite dell’anno di crisi 2008 venissero completamente riassorbite: a fronte dei 30 miliardi di euro di minusvalenze subite in quell’anno sono stati recuperati nel periodo 2009-2014 37 miliardi di euro. L’utile del 2014 per il complesso dei fondi, pari a 11 miliardi, rappresenta il saldo delle seguenti partite: i) le già citate plusvalenze sul portafoglio (utili su negoziazioni per 3,8 miliardi e da valutazione per 7,1 miliardi); ii) gli oneri di gestione addebitati per 2,9 miliardi di euro (in crescita rispetto ai 2,5 miliardi del 2013); tra i ricavi, iii) il complesso di cedole, dividendi e altri proventi degli investimenti è aumentato a 4,3 miliardi (3,8 miliardi nel 2013), mentre iv) il saldo altri proventi e oneri (incluse imposte prelevate principalmente sui fondi pensione per -0,5 miliardi) è stato negativo per 1,3 miliardi.

Ed ecco alcuni trucchi inventati dalle banche per nascondere ai clienti le commissioni di entrata in alcuni tipi di fondi comuni. Per il sistema nel suo complesso, si tratta di entrate miliardarie, alle quali non corrisponde alcun beneficio per i risparmiatori, come sulle commissioni di ingresso, sostituita  dalla più subdola, commissione di collocamento, meno visibile per nascondere sotto il tappeto un costo addossato alla clientela. Un cliente sarà più propenso a comprare un prodotto di investimento se ha l’impressione che la detestata commissione di ingresso sia sparita. Non solo: se decidesse di uscire dall’investimento prima della scadenza, la commissione di collocamento diventerebbe una commissione di uscita. Nell’esempio precedente, se l’investitore vendesse le sue quote alla fine del primo anno di detenzione, il loro valore sarebbe ridotto di 1 euro per effetto della commissione di collocamento, ma, in più la società di gestione del fondo, si prenderebbe una commissione di 2 euro, in modo da incassare in totale i suoi 3 euro previsti. È molto facile per il personale della banca dire al cliente: “meglio tenere il fondo fino alla scadenza perché le costerebbe una commissione di uscita del 2 per cento”. In questo modo, il cliente viene incentivato a rimanere ancorato al prodotto che ha comprato.

Qualcuno potrebbe pensare che, se la commissione di collocamento viene spalmata su più anni, anche la banca la incassa gradualmente anziché tutta in una volta. E invece non è così. Le banche si sono inventate un trucco contabile per incassare subito la commissione. Nel nostro esempio, la società di gestione che gestisce il fondo incassa 100 euro dal cliente e versa 3 euro alla banca, anticipandole la commissione di collocamento. La Sgr investe i rimanenti 97 euro del cliente nel fondo, quindi il patrimonio effettivamente investito è 97. Poiché il valore contabile delle quote (quello che il cliente vede) è 100, il fondo vanta un credito nei confronti del cliente (tecnicamente un “risconto attivo”, che è quello che il cliente non vede), che gli verrà fatto pagare giorno per giorno, adeguando il valore contabile delle quote al loro valore effettivo (97), fino a che i due valori coincideranno al termine dei tre anni.

Questo complesso meccanismo, oltre a ingannare il cliente, consente alla banca di registrare una entrata di cassa immediata di 3 euro. E così, magicamente, la stessa voce ha un trattamento di competenza per il risparmiatore (in modo da essere meno evidente) e di cassa per la banca (in modo da massimizzarne l’effetto sul conto economico). Il trucco, che ha consentito al settore bancario italiano di imbellettare i bilanci del 2015 in misura considerevole, è solo l’ultimo di una lunga serie di prodotti finanziari studiati e collocati dalle banche al solo fine di massimizzare l’incasso di commissioni in modo indolore e immediato (derivati, obbligazioni strutturate e compagnia). Vale la pena  che la Commissione europea possa avviare una riflessione sulla circostanza che un settore così vitale per l’economia, non può fondare la propria esistenza sulla mortificazione dei clienti e dei propri azionisti allo stesso tempo.

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