FERROVIE KILLER / SCEMPI & DISASTRI, ECCO I NOMI

Strage in Puglia. Ferrovie assassine. Omicidi di Stato. Urlano vendetta i corpi straziati di pendolari, studenti, bambini, anziani massacrati fra vagoni e lamiere, un orrendo groviglio che ha un mandante ben preciso: le istituzioni di casa (e cosa) nostra, da anni impegnate nel far morire le linee secondarie, i “rami secchi”, a favore dei maxi progetti dove le Cricche trasversali possono rubare meglio, ingozzarsi di più. Dall’Alta Velocità – regina assoluta di furti & sperperi arcimiliardari – fino ai metrò e ai super tram cittadini, un’orgia di lavori che non solo hanno dato disco verde all’assalto alle casse pubbliche, ma anche consentito scempi ambientali che nemmeno nel quinto mondo. Ciliegina sulla torta, un arbitrato-boomerang inventato dal ministero delle Infrastrutture (regnante nel 2007 Antonio Di Pietro) che ha dato il colpo finale al comatoso bilancio pubblico (e di quel ministero in particolare, che ha praticamente stoppato lavori, anche di manutenzione, essenziali). Ricostruiamo alcune tessere dello “scientifico” mosaico, messo su – tassello dopo tassello – da politici, faccendieri & mafie.

Claudio Signorile. In apertura il disastro ferroviario di queste ore in Puglia

Claudio Signorile. In apertura il disastro ferroviario di queste ore in Puglia

Gli affari su rotaia sbocciano negli anni ’70 e ’80, ai tempi della “sinistra ferroviaria” targata Claudio Signorile e Rocco Trane, pugliesi doc. E’ l’era di Ludovico Ligato (muore ammazzato) al vertice delle FS, degli appalti facili a tutti i livelli, da quelli – proprio – per i passaggi a livello (dove fa capolino il cavaliere del lavoro Eugenio Buontempo, ottimo amico del ministro Psi dei Trasporti Claudio Signorile e acquirente “a gratis” dell’ex flotta Lauro), fino alle “lenzuola d’oro” dell’irpino Elio Graziano, titolare sia dell’Idaff che dell’Isochimica, oggi sotto processo per la strage degli operai costretti a lavorare tra l’amianto delle carrozze ferroviarie.

Ma il salto di qualità avviene a fine anni ’80, con il grande affare dell’Alta Velocità. Dopo aver banchettato per 10 anni con i fondi pubblici del dopo terremoto ’80 (70 mila miliardi di lire), arriva infatti la maxi torta Tav, il progetto ideato dagli scienziati della spartizione del Bottino Pubblico: in prima fila menti raffinate come quelle di Paolo Cirino Pomicino, a quel tempo titolare del Bilancio, Romano Prodi, al vertice dell’Iri, Lorenzo Necci, numero uno delle FS.

Tutti in carrozza con un carburante iniziale da 26 mila miliardi: tanto basta per mettere in moto il diabolico meccanismo a base di “general contractors” e “project financing”, ottimi strumenti per le associazioni d’imprese, ma anche a delinquere, visto che a TAV…ola si siederanno subito, oltre alle grandi firme del parastato e ai big del mattone, anche i più collaudati faccendieri e le più attrezzate imprese mafiose.

 

QUELLA TAV SU CUI INDAGAVANO FALCONE E BORSELLINO

Non a caso, i primi a puntare i riflettori su quel fiume di soldi in costante crescita – oggi praticamente incalcolabile, anche per i più alti Ragionieri delle Finanze pubbliche – sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che sulla scorta di un corposo rapporto elaborato nel 1990 dal Ros di Palermo, il dossier “Mafia & Appalti”, cominciano a indagare sulle connection tra alcune imprese che già fanno capolino per la Tav e Cosa Nostra, senza dimenticare la rampante camorra, già ampiamente allenata con le performance post sisma (e un “patto” sancito in occasione del rapimento dell’assessore Dc Ciro Cirillo). Sarà proprio quella bollente inchiesta, con ogni probabilità, il detonatore che farà scattare il tritolo di via Capaci, in grado di evitare che una maxi Tangentopoli, con Vip della politica & boss di Cosa Nostra in pole position, potesse prendere corpo e dare un colpo al nascente e già rigoglioso business che fa comodo a tutti. Quel Treno, infatti, non s’ha da fermare.

Pier Francesco Pacini Battaglia

Pier Francesco Pacini Battaglia

La Voce comincia a denunciare quelle trame già nel ’93. “Tutti a TAV…ola” il titolo di un’inchiesta, in cui vengono fatti nomi di progettisti e imprese: tra gli altri, fanno capolino Vincenzo Maria Greco, l’uomo ombra di Pomicino, arrestato giorni fa per altri business simili (targati “Impresa”, la sigla riconducibile ai rampolli, Ludovico e Maria Grazia, e al mattonaro Raffaele Raiola), nonchè un inedito tandem, composto dal già visto Buontempo (suocero di Italo Bocchino) e da Francesco Pacini Battaglia, l’uomo a un passo da Dio, i quali mettono su una sigla incaricata di “controllare” (sic) e sovrintendere su quegli appalti miliardari. Come dare a Dracula la gestione dell’Avis.

L’affare s’ingrossa, i miliardi piovono dal cielo come una manna, arriviamo a quota 150 mila miliardi, come documenta nel 1999 “Corruzione ad Alta Velocità”, firmato da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, e del quale abbiamo scritto di recente in un paio di occasioni che riportano alla “Di Pietro Story”, soprattutto alla “non inchiesta” dell’ex pm di Milano e poi fondatore di Idv proprio su Pacini Battaglia, il gran regista dell’affare Tav (oltre che della super mazzetta Enimont). Perchè mai l’inflessibile Di Pietro – era l’interrogativo base – pur avendo tutti gli elementi a disposizione e carte a iosa non incastrò il super faccendiere toscano, con i suoi consueti metodi non proprio british ma comunque utilizzati per parecchi inquisiti, anche eccellenti, come Raul Gardini? Misteri della giustizia di casa nostra.

Nell’inchiesta sui grandi appalti della procura di Roma, un anno e mezzo fa, è sempre la Tav protagonista, e al centro Ercole Incalza (il cui nome fa capolino anche in Metro C a Roma), per anni dominus al ministero delle Infrastrutture e a capo della “struttura di missione”, da alcuni mesi passata sotto il controllo del partenopeo – area Pd – Ennio Cascetta, il “padre” delle ultime linee del metrò made in Napoli (che vedremo fra poco). Incalza e Pacini Battaglia – documentò la Voce nel ’95 – erano non solo grandi amici, ma anche soci…

 

TAV & TRAM IN RIVA ALL’ARNO…

A tutta Alta Velocità anche sul palcoscenico fiorentino per il quasi-disastro dell’Arno d’un paio di mesi fa. Lo “scoppio” degli argini venne attribuito dal coro mediatico alla rottura di una condotta, quasi una bega condominiale, e non alla causa palese, ossia i lavori killer (nel delicato sottosuolo gigliato) per l’alta velocità che massacra il ventre storico della città-museo. Lavori cui prendono parte – l’ha accertato la procura di Firenze – come invitati eccellenti anche i Casalesi. Alcune sigle made in Casal di Principe, infatti, hanno provveduto a interrare montagne di rifiuti tossici man mano che andavano avanti i subappalti per l’alta velocità. Che si dimostra ormai sempre più “Alta Voracità”…

Il crollo del Lungarno e in primo piano Matteo Renzi

Il crollo del Lungarno e in primo piano Matteo Renzi

Non solo Tav, comunque, nella città di Matteo Renzi, ma anche il Tram, altrettanto veloce, che collega l’aeroporto di Peretola con il cuore di Firenze. Un’opera molto cara al premier, che l’ha fortemente caldeggiata: emblematica la soddisfazione dipinta sul volto quando, da sindaco, tagliava il nastro del cantiere con il timoniere di Impresa spa, Raiola. Peccato che dopo neanche un anno la società – che aveva rilevato il ramo d’azienda della storica BTP, di simpatie verdiniane, finita nell’occhio del ciclone per gli appalti della Cricca – sia a sua volta finita in crac, e poi sotto inchiesta, “maturata” alcune settimane fa con gli arresti di Greco, Raiola & C. Terzo passaggio di testimone poco fortunato, visto che a subentrare per la commessa di Speedy Tram è la Fincosit Grandi Lavori, il cui vertice finisce dritto dritto nell’inchiesta per il Mose, a bordo del Consorzio Venezia Nuova: ora, alla guida di Fincosit, c’è un top manager del calibro di Vito Gamberale: fusse che fusse la volta ‘bona, per ‘O Tram?

Passiamo all’altro gran piatto in tavola, quello a base di linee metrò. 12 luglio. Su tutti i media le news dell’inchiesta capitolina sulla linea C mangiasoldi, zeppa di varianti, sfasciambiente. E lunga un’eternità. Con svariati manager e dirigenti comunali sotto i riflettori, a partire dall’ex assessore alla mobilità nella giunta Marino, Guido Improta.

Il crollo di calcinacci nella chiesa di piazza Santa Maria degli Angeli a Napoli

Il crollo di calcinacci nella chiesa di piazza Santa Maria degli Angeli a Napoli

Poca roba, comunque, rispetto a quanto va in onda da 40 anni suonati a Napoli, una sceneggiata che la Voce ha più volte descritto. Posa della prima pietra nella primavera 1976, prime ruspe griffate Zagaria – la dinasty dei Casalesi con il boss Michele allora giovane virgulto – primi progetti “comprati” da un laureando in ingegneria, poi Via con i lavori… senza Via, ossia senza uno straccio di “Valutazione d’Impatto Ambientale” che di prassi è necessaria anche per fare una veranda. La crema dei mattonari in pista (la stessa in campo a Roma, con Astaldi, Vianini made in Caltagirone, Pizzarotti, e poi l’Icla cara a Pomicino), una società di gestione, Metronapoli, guidata proprio da un ex manager Icla, Giannegidio Silvia, un Comune che “controlla” via Gianfranco Pomicino (cugino di ‘O ministro e alla guida dell’ufficio di palazzo San Giacomo che sovrintende sulle grandi opere pubbliche). Non è certo finita. Scarsa sicurezza degli impianti, che ad ogni leggero acquazzone vanno in tilt e si allagano, e soprattutto impatto killer con il cuore della città, come da anni denuncia – praticamente nel deserto – il geologo Riccardo Caniparoli. Freschi esempi, alcuni crolli in antiche chiese del centro, come la Basilica di piazza Santa Maria degli Angeli e quella di Santa Brigida. Senza contare le ampie lesioni in palazzi adiacenti piazza Municipio (un’inchiesta aperta nel 2009 ha fatto flop) e di palazzo Guevara, lungo la Riviera di Chiaia, con un processo che sta per partire e vede alla sbarra una quindicina tra manager delle imprese (da quelle private alla parastatale Ansaldo, progettista anche della linea C a Roma) e funzionari comunali (ma il sindaco Luigi de Magistris si è costituito parte civile). Il top, però, viene raggiunto con i costi da autentico Guinness: 350 milioni a chilometro, più del doppio rispetto a Roma e al tunnel sotto la Manica (un po’ più complesso e realizzato in 7 anni).

Insomma, di tutto e di più in un’opera emblematica della sfascio non solo di Napoli ma di tutto il Paese: come scriveva Bocca, profeticamente, dieci anni fa, “Napoli siamo noi”…

 

L’ARBITRATO KAMIKAZE FIRMATO DI PIETRO

Schermata 2016-07-12 alle 20.32.41Eccoci alla ciliegina sulla torta. Uno Stato in bancarotta, un ministero delle Infrastrutture in crac, un settore dei Trasporti in stato comatoso anche per via di un arbitrato suicida, quello “allestito” dall’allora ministro Antonio Di Pietro e costato, alle casse pubbliche, la bellezza di 1 miliardo e mezzo di euro. A fare Bingo il mattonaro marchigiano Edoardo Longarini, che vent’anni fa intentò causa per alcuni appalti mai effettuati in una serie di ricostruzioni tra cui quelle di Ancona e Ariano Irpino. Dopo anni e anni di liti giudiziarie, la storica decisione di ricorrere allo strumento dell’arbitrato venne presa dal titolare del dicastero nel secondo governo Prodi, anni di grazia 2007, l’ex pm e leader di Italia dei Valori: nonostante il deciso e motivato parere negativo dell’Avvocatura dello Stato, il buonsenso e le statistiche, secondo le quali lo Stato perde nel 95 per cento dei casi. Ma tanto volle il Moralizzatore degli Appalti. Le sorti arbitrali venivano affidate, del resto, in mani più che mai sicure: uno degli “Arbitri”, infatti, era Ignazio Messina, prima portaborse di Di Pietro, poi suo successore in Idv, quindi addirittura segretario. Nel frattempo, il dinamico Messina trovava il tempo di pensare ai ricchi arbitrati, come quello Longarini, arrivato grazie all’amico Tonino. E nonostante la clamorosa sconfitta, beccherà una parcella milionaria.

Antonio Di Pietro. Sopra, Ignazio Messina

Antonio Di Pietro. Sopra, Ignazio Messina

A piangere, invece, le casse pubbliche. Soprattutto dopo la sentenza del 16 marzo 2015, pronunciata dalla terza sezione civile della Corte d’Appello di Roma e relativa al solo arbitrato di Ancona: 1 miliardo e mezzo pro Longarini, Stato ko! A nulla sono servite le ultime, ridicole, difese ministeriali che hanno cercano in extremis di opporsi, perchè altrimenti “l’intero settore dei Trasporti è a rischio”, perchè c’è il concreto pericolo di un “blocco totale dei fondi per il trasporto locale per almeno 600 milioni di euro”, perchè “molti cantieri rischiano di chiudere”, perchè sono “a rischio tra i 35 e i 40 mila posti di lavoro”.

Ora Longarini ride. Messina gode. Di Pietro gongola. Le casse pubbliche sono prosciugate. Le linee secondarie muoiono. I rami secchi bruciano.

E i morti di Puglia aspettano di vedere in galera i loro killer.

 

 

Link

DI PIETRO – LO STATO PERDE, MESSINA INCASSA – 15 aprile 2015

DISASTRO DELL’ARNO E LAVORI TAV / POTEVA RENZI NON SAPERE ? – 25 maggio 2016

DELRIO & CASCETTA / I METRO’ PIU’ CARI DEL MONDO – 18 maggio 2016

FERROVIE NELLA BUFERA / UN ANNO FA FERDINANDO IMPOSIMATO CHIEDEVA IL COMMISSARIAMENTO DI RFI E DENUNCIAVA ALL’ANAC – 31 ottobre 2015

INCALZA E CORRUZIONE AD ALTA VELOCITA’, COSI’ IMPOSIMATO E PROVVISIONATO NEL PIU’ TOTALE SILENZIO -16 ANNI FA DENUNCIAVANO – 18 marzo 2015

 

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