IL RAGAZZO DI ATRIPALDA – IL CASO LETTERARIO DI ALFREDO BONAZZI

Squalificati a vita è il titolo dell’ampia intervista che Alfredo Bonazzi, il poeta di Atripalda che ci ha lasciato l’altro giorno dopo una lunga malattia, rilasciò nel 1975 al periodico “La Voce della Campania”: un prezioso documento ritrovato che, in ricordo del “ragazzo di Atripalda”, è stato pubblicato integralmente in una sezione di “Vallea”, il nuovo Annale di storia letteraria irpina in corso di stampa per l’editore Mephite che sarà in libreria dal 23 novembre.

Al poeta irpino (nella foto),che per la sua vicenda giudiziaria e la travagliata detenzione in carcere fu considerato negli anni ’70 un vero e proprio “caso nazionale” nella letteratura italiana, è dedicato anche uno dei saggi di un volume in corso di pubblicazione per Mephite: Rileggendo l’Irpinia. Storie e testi ritrovati, da Goldoni a Camilleri.

Qui di seguito un estratto del saggio, dal titolo Il “ragazzo di Atripalda”: il caso letterario di Alfredo Bonazzi.

 

Come trascorsero i primi anni della tua vita?

 

Sono nato ad Atripalda il 28 febbraio 1929. A 14 anni, durante il bombardamento ad Avellino dell’11 settembre 1943, una scheggia mi entrò nel palato e fuoriuscì dal lato parietale destro con perdita di materia cerebrale. Questo incidente alterò il mio carattere e rese difficile il mio inserimento sociale: divenni un irrequieto. Per questa mia irrequietezza il Tribunale di Napoli mi fece internare nel riformatorio, il cosiddetto ‘Serraglio’ di Piazza Carlo III.

 

Entrasti quindi in riformatorio senza aver commesso alcun reato, ma solo per l’irrequietezza del tuo carattere…

 

Esatto. I primi reati li ho commessi nel Serraglio dove mi insegnarono a maneggiare il coltello e dove capii che la violenza era all’interno dell’istituzione stessa. La vera caratterizzazione della mia delinquenza del passato derivava proprio dall’ ‘educazione’ impartitami in riformatorio: mi resi conto che per difendermi dovevo usare la stessa arma che la società aveva usato nei miei confronti, cioè la violenza.

 

Cosa facesti quando uscisti dal riformatorio?

 

Dimesso dal riformatorio, a 17 anni andai a Milano. In quella città divenni uno della malavita, in breve tempo mi feci largo e divenni presto stimato negli ambienti del crimine. Fui arrestato per furto e conobbi il carcere minorile; quando uscii tornai a rubare, poi passai alla rapina…, il carcere è la strada più sicura per giungere ai vertici del crimine.

 

L’adolescenza difficile di Alfredo Bonazzi raccontata in prima persona: il brano che abbiamo riportato in apertura è l’incipit di un’intervista a “La Voce della Campania”, dal titolo Squalificati a vita, pubblicata nel numero del 16 luglio 1975 dal giornalista Marino Marquardt. Un documento fondamentale, sebbene dai più dimenticato, per la ricostruzione dell’esperienza umana e poetica dello scrittore di Atripalda, che negli anni ’70, con la sua storia e soprattutto con l’intensità dei suoi versi, si impose all’attenzione dell’editoria e del mondo letterario in Italia.

Abbiamo incontrato – scrive Marquardt – Alfredo Bonazzi, l’autore di Ergastolo azzurro e de L’infanzia di Caino, sulle terrazze del ‘Centro Marechiaro’, ove era stato invitato per presentare il suo ultimo libro Squalificati a vita. L’intervista che ci hai rilasciato si commenta da sola: è una drammatica testimonianza e un atto di accusa contro i sistemi adottati nei penitenziari e nei manicomi criminali”.

Bonazzi era uscito dal carcere nel ‘73: il Capo dello Stato, Giovanni Leone, gli aveva concesso la grazia “per meriti letterari”, accogliendo la domanda presentata da Sandro Pertini (che cinque anni dopo gli sarebbe subentrato al Quirinale), dopo 13 anni di reclusione. Avrebbe dovuto scontarne più di trenta, per un omicidio commesso a Milano, che Bonazzi rievoca nell’intervista al quindicinale di Napoli:

 

La Voce – Quando e come commettesti l’omicidio?

 

Bonazzi – Fu nel 1960. Andammo a fare un furto in Viale Zara a Milano. Avevo il compito di aprire ai complici che erano all’estero: nel locale dove ero penetrato dormiva un vecchio di 75 anni, quasi cieco. Fui colto da una crisi epilettica e colpii a morte l’uomo, lo massacrai … si trattava di una persona inerme che per un individuo come me, già scaltrito e proveniente dal riformatorio, non costituiva alcun pericolo.

 

La Voce – Che condanna avesti?

 

Bonazzi – Ebbi trent’anni di reclusione e tre anni di casa di cura e custodia.

 

La Voce – Dove fosti mandato a scontare la pena?

 

Bonazzi – Fui internato prima nel manicomio criminale di Reggio Emilia. Sono stato legato per 68 giorni consecutivi al letto di contenzione senza mai vedere né un medico, né infermiere, né un cappellano. Avevo un cartellino su cui era scritto: «Agitato e confuso, resti contenuto fino a nuova perizia».

 

Comincia così l’odissea del “ragazzo di Atripalda” nei penitenziari italiani: un’esperienza dolorosa, che lo spinge a un passo da una strada senza ritorno. In Ergastolo Azzurro, una delle sue liriche più celebri, Bonazzi rivive lo stato d’animo dell’impatto con il carcere e con la prospettiva della detenzione a vita. In questi anni terribili, sono la perdita della libertà e il rimorso a segnarlo, ma è soprattutto il trattamento che viene riservato a lui e agli altri ergastolani a rivelargli una condizione di assoluta disumanità:

 

La Voce – Che ricordo hai di quei giorni?

 

Bonazzi – Terribile. Ricordo che accanto a me c’erano uomini legati da circa vent’anni. In quel periodo smarrii l’equilibrio verticale per assumere quello orizzontale, per mangiare venivo imboccato dallo ‘scopino’.

 

La Voce – Chi era lo ‘scopino’?

 

Bonazzi – Era un detenuto che si trovava in manicomio per deviazioni sessuali. Lascio immaginare quali soprusi, quali angherie, quali vigliaccherie eravamo costretti a subire.

 

L’aspetto più grave e penoso di questo “trattamento”, oggi inimmaginabile e già allora indegno di un paese europeo moderno, era tuttavia ancora di là di venire: più delle mille angherie e delle punizioni corporali, la strategia più disumanizzante sarà costituita da quella che potremmo ribattezzare “polizia psichiatrica”.

Solo la fede e lo studio – e, quindi, la poesia – gli permetteranno di ritrovare, faticosamente, una prospettiva di vita. Fra le letture più importanti e formative, i versi ed i romanzi di Thomas Hardy e Cesare Pavese, che Bonazzi rievoca in una delle sue poesie migliori, Il frantoio delle ore, in cui esprime uno stile limpido e raffinato e rivela tutta la carica di sensibilità che alberga nel cuore di un uomo, come si definirà più avanti, “squalificato a vita” dalla società in cui vive. Di straordinaria delicatezza, nella seconda strofa, i versi dedicati alla prematura scomparsa di Pavese, particolarmente caro al “ragazzo di Atripalda” per alcune esperienze (la condizione di confinato al tempo del Fascismo) e stati d’animo – il disagio esistenziale spinto alle estreme conseguenze, la sete d’amore inappagata – che Bonazzi vive e sente fin dentro ai più remoti meandri dell’anima:

 

Ogni sera – da dieci anni

qualcuno mi chiude il cancello

e alle diciannove e dieci

comincio a passeggiare nella cella.

 

Poi siederò al tavolo

sotto la luce

a leggere poesie di Hardy,

a imparare a memoria

il “mestiere di vivere”

del ragazzo Pavese

(“che beveva stupito il mattino”

prima che di colline

si facesse verde grano).

Ma io non so vivere,

io che respiro il sussurro gonfio

di vene umane

con la mente insonne della notte.

 

Da dieci anni – ogni sera

sento il richiamo del gatto

nel cortile chiuso all’avventura,

e il canelupo magro, sguinzagliato,

giocare con le guardie

sento ogni sera – da dieci anni.

 

Veterano del “cuore profondo”

ho cuore di cosmonauta

e radar d’amore

al posto degli occhi:

vado captando i pensieri

l’agonia e il pianto

del compagno inquieto.

Chiuso a chiave, riascolto

nel frantoio delle ore

le voci deluse della speranza

e l’eco dei tanti messaggi spenti.

 

La lettura e lo studio hanno il potere di consentire anche a lui, reietto della società, di superare – almeno per qualche ora, ogni giorno – i limiti invalicabili di tempo e di spazio e, per dirla con Machiavelli, di “indossare gli abiti curiali”. Un autodidatta che scopre nei libri la strada per elevarsi oltre uno status di annullamento di sé, e nella poesia uno strumento di liberazione dai dèmoni del passato, che per più di un decennio non l’hanno mai abbandonato, come scrive in Anniversario (2 aprile 1960 – 2 aprile 1970). Miracolo è un termine-chiave nella seconda fase della sua vita, caratterizzata da un percorso di fede, evidenziato sin dal ’77 nei fondamentali studi sulla figura e la poesia di Bonazzi condotti da Raffaele La Sala, tra l’altro conterraneo del “ragazzo di Atripalda”, che intervistò in quello stesso anno sul “Corriere dell’Irpinia”. Nell’animo di Bonazzi, come di tanti detenuti italiani, erano rimaste impresse la visita e le parole di papa Giovanni XXIII nella sua storica visita a Regina Coeli. E che dalle sue poesie trapelasse un sincero anelito di fede lo aveva intuito anche il critico letterario de “L’Osservatore Romano”, nel recensire le prime raccolte poetiche: “Bonazzi è tornato a sentirsi uomo, nell’attesa di tornare uomo tra gli uomini. La via della pacificazione e della redenzione se l’è aperta lui stesso con la pentita e contrita autocondanna del male compiuto: oggi la speranza è l’unica compagna di questi anni che la rende meno amari e tormentosi; domani la libertà ridonerà un uomo che nel travaglio interiore ha trovato il suo perfezionamento spirituale, morale e civile”. A segnare una svolta positiva nel percorso esistenziale di Bonazzi, nel frattempo, come si diceva, era stato il successo letterario, giunto in maniera casuale e poi consolidatosi nei primi anni ’70, quando il “poeta-ergastolano”, come venne in un primo momento ribattezzato, fu al centro di un vero e proprio “caso” nel mondo culturale italiano:

 

La Voce – In che modo diventasti famoso?

 

Bonazzi – Attraverso Toti Dal Monte, la grande cantante lirica. Venne un giorno in visita a Porto Azzurro e il direttore la invitò a visitare il reparto dove ero rinchiuso. Ricordo che entrò nella mia cella mentre stavo studiando, si chinò su di me e chiese di leggere alcune mie poesie. Fu la mia fortuna: dopo 15 giorni venne Giuseppe Grazzini di ‘Epoca’ e mi fece conoscere al pubblico con un servizio di quattro pagine intitolato Il poeta sepolto vivo. Dopo un editore si fece avanti ed ebbi la possibilità di pubblicare prima Ergastolo azzurro e poi L’infanzia di Caino.

 

La Voce – Da allora è cominciata la tua ‘escalation’ nel mondo letterario. Quali sono i premi più importanti che hai vinto?

 

Bonazzi – Mi sono classificato secondo ad un premio ‘Viareggio’, ho vinto il ‘Cardarelli’ davanti a Montale e Bertolucci, il ‘Città di Sorrento’, il ‘Santa Caterina’ a Napoli, il ‘Bagnango Terme’, il ‘Città di Campobasso’, il premio internazionale dedicato a Martin Luther King e tanti altri minori.

 

La Voce – Cosa accadde dopo la pubblicazione di Ergastolo azzurro?

 

Bonazzi – Divenni famoso ed ebbi la fortuna di ricevere l’aiuto e l’interessamento di Sandro Pertini che, avendo preso a cuore la mia situazione, riuscì a farmi ottenere la grazia.

 

Da quel momento, per colui che era diventato con le sue poesie uno dei detenuti più famosi d’Italia, la libertà non sarà più il sogno proibito di tante notti in prigione, l’amara beffa quotidiana di una vita sbagliata, che lo tormentava nella poesia Libertà.

Lo studio, la poesia, il successo letterario, gli attestati di stima, la grazia: il percorso di rinascita e di redenzione di Bonazzi si articola lungo una serie di faticose tappe in salita, che riesce a superare con l’apporto di una solidarietà sincera e diffusa, ma prima ancora ha origine da una coraggiosa e convinta presa di coscienza individuale, che scaturisce dal profondo dell’io e dai valori che riemergevano da un’infanzia lontana, negli anni di Atripalda. E’ illuminante un ricordo che lo stesso Bonazzi affida a Teodoro Giùttari, autore di un libro fondamentale (L’ergastolo azzurro di Alfredo Bonazzi. Poesia e tragedia del poeta ergastolano, Todariana editrice, 1971), sul poeta di origine irpina, all’epoca ancora detenuto: “Nel 1936 Alfredo raggiunge una stentata guarigione e, ora, sulle spalle d’uno zio e ora condotto per mano da Maria (una delle quattro sorelle, n.d.r.), viene portato alla basilica di Montevergine, e ori, marmi, incensi, suono di campane, invocazioni di popolo a “Mamma Schiavona” e mangiate e bevute sacrificali in mezzo al verde e al fresco dei castagni, sono un bel ricordo: “Quel campanile ha sempre svettato nel mio cielo fantastico, come punto di riferimento della mia prima infanzia, dolorosa ma pulita”.

Quella terra natale e quell’infanzia segnata dalla malattia ma moralmente limpida, in una famiglia e in un ambiente che ricorda con immenso rimpianto, rivivono in Madonna del Sud, commovente tributo alla figura della madre e alla terra da cui troppo presto si è allontanato, perdendosi. Con la fede e la religiosità, Alfredo Bonazzi trova anche una nuova risorsa di umanità: l’impegno civile in favore di chi ha condiviso la sua drammatica sorte. Il clima culturale dell’epoca, con la migliore intellighenzia italiana protesa alla scoperta e alla valorizzazione del ‘nuovo’, delle culture ‘altre’, dei deboli e degli emarginati, favorisce non solo l’attenzione verso l’opera del “poeta-ergastolano” ma anche, da parte di quest’ultimo, una chiara presa di coscienza politica su una condizione collettiva:

 

La Voce – Il tuo impegno sociale è sostenuto da una scelta politica?

 

Bonazzi – Sono di sinistra. È chiaro infatti che è necessario un nuovo impegno politico perché non si può più tollerare che su 100 detenuti che escono dalle carceri, 78 vi ritornano perché considerati dalla società ‘squalificati a vita’.

 

Solo per pochi, come Alfredo Bonazzi, si realizza l’Ultimo sogno, che dà il titolo a una delle sue poesie più brevi e profonde, di delicata potenza simbolica e visiva, con dedica “A un compagno ammalato”:

 

Si spalanca il cancello

all’ondata di luce

del delirio di febbre:

attendere la morte

con il sapore acerbo di una mela

addentata all’alba in giardino,

ancora tutta fresca di rugiada.

 

 

Qui sotto, in pdf, l’articolo originale tratto da La Voce della Campania di luglio 1975

pagina luglio 75

2 pensieri riguardo “IL RAGAZZO DI ATRIPALDA – IL CASO LETTERARIO DI ALFREDO BONAZZI”

  1. Luca ha detto:

    Buongiorno e bell’articolo per un uomo che ha vissuto “tre” vite e un grande poeta.
    Solo la foto è sbagliata.

    Consiglio di far riferimento alle ultime pubbliche:
    presso
    http://www.officina-benessere.it/alfredo-bonazzi-il-giardino-della-poesia/
    troverete alcuni bei primi piani recenti del poeta.

    Cordiali saluti
    Luca

  2. Carlo ha detto:

    Io ho curato e conosciuto Alfredo negli ultimi anni di vita, mi rimarrà un ricordo intenso e carico di emozioni di questo grande poeta. Nelle notti di guardia mi ha raccontato parte delle sua vita e delle sue sofferenze. Ho imparato da lui moltissimo.

Lascia un commento