La tripla e quadrupla imposizione fiscale che sta decimando gli italiani

Benché provati e temprati da decenni di malagiustizia (tanto da considerare il fenomeno come una maledizione ineluttabile), gli italiani conservano ancora, nel fondo, quello che un tempo si chiamava “senso della giustizia”. Se io non danneggio il mio vicino di casa, è logico pretendere che lui faccia lo stesso, altrimenti sarà punito. Semplice, elementare, un bene residuale, ma necessariamente durevole.

Deve essere questa l’intima ragione alla base dell’insofferenza contro un sistema fiscale che, per mano di “legge”, impone loro regole diametralmente opposte a quelle della convivenza col vicino di casa.

Il ragionamento è elementare: io Stato ti offro servizi essenziali (scuola, trasporti, sanità, “giustizia”), tu cittadino mi paghi le tasse. Il punto è qui: ti pago le tasse, è giusto. Ma quante volte ti devo pagare le stesse tasse?

Andiamo avanti, è sempre più banale. Ti pago alla fonte, con trattenute di circa il 50% del reddito, il prodotto del mio sudato lavoro (tanto se sono un lavoratore dipendente, quanto se sono un libero professionista o un pensionato). E’ tanto, tantissimo. Ma è giusto. E chiudiamola lì.

E invece no. Dopo la prima imposizione capestro (ti prendi la metà del frutto del mio lavoro…) tu vuoi anche la seconda. Perciò su ogni etto di frutta o di latte o di qualsiasi altra merce di prima necessità, io devo pagarti il 21 (da domani forse il 22) per cento in più. E’ una follia. Però ti pago ancora. Mi strozzo. Ma finiamola lì.

E no, invece no. Perché dopo le due imposizioni-cappio, arriva la terza, anche questa obbligatoria. Certo, dice lo Stato, mi hai già pagato il 50% sul tuo lavoro, e con quel denaro dovevano essere gratuiti i trasporti, la sanità, etc. etc. Già, ma a me non basta più. Devo mantenere un apparato da 25 miliardi l’anno o giù di lì. Non ti sta bene? Decido io. Perciò, se vuoi usare i mezzi pubblici in città, devi pagare fino a 2 euro a biglietto. Se devi raggiungere qualsiasi località in treno, sappi che abbiamo privatizzato le ferrovie, quindi niente prezzi politici, mi paghi il doppio di quello che spendo io per trasportarti, ché quel bel margine mi serve per alimentare la famelica rete dell’apparato di vertice, super liquidazioni d’oro, politici di riferimento e i loro staff. Mica uno scherzo, sai?

Se poi sei fortunato e possiedi un’auto per spostarti, sappi che sono state privatizzate anche le strade, quindi se vuoi parcheggiare, paga al Comune fino a 3 euro per ogni ora (ma non davamo ai Comuni i milioni provenienti a livello centrale dalle nostre tasse? Già, ora non bastano più…). E sul carburante? Le gabelle pesano quanto la pletora di politici e grand commis delle Regioni. Tantissimo.

Ok ti pago tutto. Sto morendo ma pago. Però, se vado in ospedale…

Se vai in ospedale arriva la quarta gabella, la più odiosa. 250 euro nella sanità pubblica solo per una visita di controllo. Anche se hai già consegnato allo Stato tutto quello che ti restava per sopravvivere. Allora la visita non la fai. Le medicine non le puoi comprare più. E muori.

Il dialogo immaginario tra fisco e cittadino, se lo guardiamo così, in termini semplici, ma tragicamente veri, non è poi così dissimile dai truci intercalare con cui gli usurai si rivolgevano agli imprenditori del Nord Est, come ci ha raccontato Riccardo Iacona in una mirabile puntata di Presa Diretta.

Solo che quelle bestie, almeno alcune, le hanno arrestate (e solo grazie a quella parte di giustizia che ha continuato a funzionare, sono rimaste solo loro sempre in guardia, le DDA), mentre per il fisco italiano è tutto legale. I delinquenti siamo noi.

Sovvertire o, quanto meno, e rendere meno ingiusto questo sistema, illogico, assurdo e paradossale, che sta mietendo tante vittime: ecco una preoccupazione che non passa per la testa a nessuno.

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