STATI UNITI / WAR GAMES CON LA CINA. MENTRE RISCHIA DI SCOPPIARE LA ‘BOMBA’ SAUDITA  

Segnali sempre più inquietanti sul fronte Usa-Cina, con un clima che si fa sempre drammaticamente più incandescente.

Negli ultimi giorni, in rapida successione (e senza tener conto dell’invio in acque cinesi della nostra supercorazzata ‘Morosini’) , apre il fuoco di fila Mike Gallagher, ossia il capo del nuovo panel della Camera americana  sulla Cina, che il 19 aprile ha preso parte al ‘War Game’, considerata degli esperti una mossa molto insolita da parte dei membri del Congresso Usa che dimostra come  la Casa Bianca e il governo si stiano preparando per una futura – e prossima nel tempo – guerra con Pechino.

Mike Gallagher

Ecco le parole di Gallagher alla ‘Reuters’ e che lasciano poco spazio agli equivoci: “Siamo nella finestra del massimo pericolo per un’invasione di Taiwan da parte del Partito Comunista Cinese, e il gioco di guerra di ieri ha sottolineato la necessità di agire per scoraggiare l’aggressione del PCC e armare Taiwan fino ai denti prima che inizi qualsiasi crisi”.

Il ‘war game’ è stato condotto insieme al ‘Center for a New American Security’ (CNAS), un think tank ispirato dai falchi del Dipartimento di Stato (i vertici Tony Blinken e Victoria Nuland)   che riceve generosi e abbondanti finanziamenti dai produttori di armi a stelle e strisce, ed anche dal governo di Taiwan attraverso l’ufficio di rappresentanza economica e culturale di Taipei, nei fatti l’ambasciata taiwanese.

‘Reuters’ riporta il parere di un funzionario cinese, secondo cui “le conclusioni del war game erano che una guerra Usa-Cina su

Taiwan avrebbe comportato ingenti predite statunitensi, l’esaurimento dei missili a lungo raggio e avrebbe lasciato i mercati globali in stracci assoluti”.

Quelle di Gallagher sono solo le ultime dichiarazioni di chiaro stampo bellicista, fanno seguito a svariate altre prese di posizione che parlano una sola lingua: se la Cina muove appena un dito in direzione Taiwan sarà guerra senza se e senza ma.

 

PARLA IL FALCO DEL TESORO, JANET YELLEN

Passiamo ad altre dichiarazioni ‘pesanti’. Stavolta a parlare è un pezzo da novanta dell’establishment Usa, la segretaria del Tesoro (ed ex governatrice della Banca centrale) Janet L. Yellen che ha appena tenuto uno ‘speech’ sui rapporti economici Usa-Cina.

E il suo incipit non lascia presagire niente di buono, tanto per far intendere al nemico l’aria che tira.

Janet Yellen

“In primo luogo – sottolinea subito Yellen – garantiremo i nostri interessi di sicurezza nazionale e quella dei nostri alleati e partner, e proteggeremo i diritti umani. Comunicheremo chiaramente alla Repubblica Popolare Cinese le nostre preoccupazioni circa il suo comportamento. E non esiteremo a difendere i nostri interessi vitali. Anche se le nostre azioni mirate possono avere un impatto economico, sono motivate esclusivamente dalle nostre preoccupazioni riguardo alla nostra sicurezza e ai nostri valori. Il nostro obiettivo non è utilizzare questi strumenti per ottenere un vantaggio economico competitivo”.

Passiamo ai profili economici e commerciali. “Entrambi i paesi possono beneficiare di una sana concorrenza nella sfera economica. Ma una sana concorrenza è sostenibile solo se tale concorrenza è leale. Continueremo a collaborare con i nostri alleati per rispondere alle pratiche economiche sleali della Cina. E continueremo a fare investimenti fondamentali a casa, impegnandoci con il mondo per far avanzare la nostra visione di un ordine economico globale aperto, equo e basato su regole”.

Quelle ‘regole’ che sono gli Stati Uniti per primi a creare, imporre e poi neanche rispettare: il massimo.

Emblematico quanto scrive l’economista Edward Luce sul ‘Financial Times’. “Gli Stati Uniti di oggi non possono concludere accordi commerciali, non possono negoziare regole digitali globali, non possono rispettare le decisioni dell’OMC e non possono sostenere le riforme di Bretton Woods. Quindi, come può la Cina essere obbligata a sottostare ad un ordine globale guidato dagli Stati Uniti in cui l’America stessa ha smesso di credere?”. Il ragionamento non fa una piega.

In modo totalmente generico Yellen propone alla Cina di collaborare su “clima e debito”. Quando è sotto gli occhi di tutti che sono per primi gli Usa ad avere giganteschi problemi sul fronte del debito (come ha sottolineato l’economista francese Jacque Attali nel suo ultimi intervento, pubblicato dalla ‘Voce’), con una Cina che sta comprando sempre meno Buoni del Tesoro Usa, con cui finanziava in modo massiccio i consumi degli americani, che ora vedono il terreno franare giorno dopo giorno sotto i loro piedi.

Ancora. Yellen, nel suo discorso, fa riferimento alla grande attenzione che gli Usa devono prestare sul versante degli investimenti esteri, per parare “i rischi per la sicurezza nazionale”. Quasi un’ossessione, quella della ‘sicurezza nazionale’, un ritornello che più inquietante e sinistro non si può.

“Stiamo prendendo in considerazione – precisa Yellen – un programma per limitare alcuni investimenti in uscita dagli Stati Uniti in specifiche tecnologie sensibili con significative implicazioni per la sicurezza nazionale”. Di nuovo con la sicurezza nazionale…

 

UN PACCHETTO DI REGOLE “SENZA PRECEDENTI”

Uno dei più noti siti Usa, ‘Politico’, che ha visionato in anteprima il programma griffato Yellen, così commenta: “Entro la fine del mese sono attese regole senza precedenti che limitano gli investimenti americani in Cina e l’amministrazione ha iniziato ad informare i gruppi industriali sulle grandi linee dell’ordine esecutivo, che dovrebbe richiedere alle aziende di notificare al governo nuovi investimenti in aziende tecnologiche cinesi e proibire alcuni accordi in settori critici come i microchip”.

Jake Sullivan

Continua ‘Politico’: “Dall’amministrazione Trump, i legislatori della sicurezza nazionale e i funzionari del governo hanno cercato di elaborare nuove regole per supervisionare – e potenzialmente bloccare – gli investimenti statunitensi nei settori tecnologici cinesi. L’obiettivo è impedire alle aziende americane di finanziare o sviluppare tecnologia che possa essere successivamente utilizzata dall’esercito cinese. Ma questa è una vera e proprio escalation nella guerra economica contro la Cina”.

E così prosegue l’analisi: “Queste mosse sarebbero arrivate sulla scia dell’azione commerciale aggressiva dello scorso anno, quando l’amministrazione ha messo in atto nuove regole sulle esportazioni che cercavano implicitamente di minare il prezioso settore dei microchip di Pechino e ha approvato massicce politiche industriali volte a rompere la dipendenza dall’economia cinese. All’epoca, per il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, era chiaro che l’obiettivo della strategia era preservare il vantaggio competitivo dell’America nelle industrie high-tech emergenti”.

E ‘Politico’ conclude: “I responsabili politici lo scorso anno hanno considerato di includere nell’ordine fino a cinque grandi industrie cinesi: microchip, intelligenza artificiale, informatica quantistica, biotecnologia ed energia pulita. E’ probabile che questi ultimi due siano ora esclusi dal programma”. Ma restano ben in piedi le dure restrizioni sugli altri tre fronti industriali bollenti.

 

LE PREVISIONI DELL’ILLUMINATO RON PAUL

Su questo contesto economico-politico che più incasinato non si può, vediamo il giudizio di uno dei repubblicani più illuminati, il senatore Ron Paul, promotore di una lunga serie di battaglie per i diritti civili e per limitare i poteri di CIA, FBI e Intelligence, diventati negli anni sempre più invasivi. Fondatore e animatore del ‘Ron Paul Institute’(questo, sì, un vero think tank) può vantarsi di aver presentato il maggior numero di proposte di legge ‘bipartizan’.

Ecco cosa scrive sul sito del suo istituto, un intervento già significativo fin dal suo titolo: “La fine del petrodollaro porrà fine all’Impero degli Stati Uniti?”.

Ron Paul

“Gli storici del futuro potrebbero affermare che l’evento più significativo del 2023 non ha avuto nulla a che fare con Donald Trump, altri candidati alla presidenza del 2024 o persino con la guerra in Ucraina. Invece, l’evento con il significato più a lungo termine potrebbe essere quello che ha ricevuto poca attenzione nei media mainstream: il movimento dell’Arabia Saudita verso l’accettazione di valute diverse dal dollaro USA per i pagamenti petroliferi”.

Così si sviluppa la lucidissima analisi: “Dopo che il presidente Nixon ha reciso l’ultimo legame tra il dollaro e l’oro, la sua amministrazione ha negoziato un accordo con il governo saudita. Gli Stati Uniti sosterrebbero il regime saudita, anche fornendo armi. In cambio, i sauditi avrebbero condotto tutte le transazioni petrolifere in dollari. I sauditi hanno anche accettato di utilizzare i dollari in eccedenza per acquistare buoni del Tesoro Usa. Il risultante ‘petroldollaro’ è una delle ragioni principali per cui il dollaro ha mantenuto il suo status di valuta di riserva mondiale”.

Prosegue Ron Paul: “Anche quest’anno, Cina e Brasile hanno stipulato un accordo per condurre il futuro commercio tra i paesi utilizzando le loro valute anziché i dollari. Il presidente brasiliano Lula da Silva ha invitato più nazioni ad abbandonare il dollaro”.

E del resto la neo presidente della Banca dei BRICS (il sempre più potente asse tra Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica in fase di progressivo allargamento), ossia la ex capo dello Stato carioca Dilma Rousseff, ha più volte dichiarato, negli ultimi mesi, la necessità di abbandonare il dollaro.

“Questo movimento di de-dollarizzazione – continua il senatore Usa – è guidato in parte dal risentimento nei confronti della politica estera americana, incluso, in particolare, il crescente uso di sanzioni economiche da parte del governo statunitense. Detronizzare il dollaro dal suo status di valuta di riserva mondiale rende più facile per i paesi ignorare queste sanzioni. La de-dollarizzazione avrà un impatto negativo sulla capacità del governo Usa di gestire il suo debito di oltre 30 trilioni di dollari”.

E si avvia a concludere: “La Federal Reserve dovrà affrontare continue pressioni per monetizzare il sempre crescente debito federale e mantenere bassi i tassi di interesse (e quindi i costi di indebitamento del governo federale). L’inflazione risultante porterà a un maggiore sostegno per porre fine allo status di valuta di riserva mondiale del dollaro. Man mano che più paesi abbandonano il dollaro, la FED diventerà meno in grado di monetizzare il debito del governo federale senza creare iperinflazione. Ciò si tradurrà in una crisi del dollaro e in un tracollo economico peggiore della Grande Depressione”.

E il finale, non poco apocalittico per la superpotenza a stelle e strisce: “Questa crisi porterà alla fine del sistema monetario odierno, basato sul binomio guerra-assistenza. Mentre la storia suggerisce che questo porterà all’ascesa di movimenti politici ancora più autoritari, la crescente popolarità delle idee libertarie suggerisce che il crollo alimenterà anche l’ulteriore crescita del movimento per la libertà. Ciò potrebbe significare che la crisi porta a un ripristino del governo limitato e un progresso della libertà. La chiave per sfruttare appieno l’opportunità offerta dalla crisi è continuare a diffondere le nostre idee. Per fortuna non abbiamo bisogno di una maggioranza: abbiamo solo bisogno di una minoranza instancabile e irata, impegnata nella causa per riconquistare la nostra libertà”.

Diagnosi e strategia perfettamente condivisibili. Che guarda caso sono molto simili a quelle stilate dall’economista Jacques Attali.

 

E un esempio molto concreto e proprio di queste ore sul grado di ‘ebollizione’ del calderone americano arriva da uno dei suoi stati, il Texas. Che sta praticamente per decretare una ‘secessione’ dal dollaro.

Ecco cosa scrive un reporter americano, Scott Norvell, in un pezzo titolato “Il Texas pensa a una moneta digitale sostenuta dall’oro”.

Bryan Hughes

“Una coppia di legislatori del Texas sta proponendo un modo originale per i residenti di quello Stato di proteggersi dall’inflazione dilagante: creare un dollaro digitale sostenuto dall’oro che i possessori potrebbero usare per acquistare i beni di uso quotidiano più o meno nello stesso modo in cui, al momento, usano i contanti o le carte di credito. Un senatore repubblicano dello Stato, Bryan Hughes, e Mark Dorazio, un rappresentante repubblicano di San Antonio, hanno presentato due proposte di legge che consentirebbero al controllore dello Stato di creare una valuta digitale simile al bitcoin che sarebbe completamente sostenuta dall’oro. Il disegno di legge creerebbe un meccanismo che può consentire ai possessori di tale valuta digitale di trasferirla a chiunque altro tramite il proprio computer o smartphone”.

Continua il reportage di Norvell: “Lo Stato texano deterrebbe, nell’attuale ‘Texas Bullion Depository’ la quantità d’oro necessaria a garantire il riscatto di tutte le unità di moneta digitale vendute. Ha dichiarato Dorazio al ‘Sun’: ‘Gli elettori del mio distretto hanno appena espresso interesse per l’acquisto di oro e per la possibilità di utilizzarlo nelle transazioni quotidiane. E’ un modo per proteggere i texani da un’inflazione fuori controllo’”.

E così conclude: “I sostenitori di queste misure vogliono in definitiva porre fine al monopolio della Federal Reserve sulla creazione di moneta in America, che le ha permesso di stampare e prendere in prestito denaro senza essere vincolata dal gold standard che ha sostenuto il dollaro fino al 1971. Questa capacità di prestito è una delle cause principali dell’inflazione, che ora si aggira intorno al 5 per cento annuo”.

 

DENTRO I MISTERI SAUDITI

E chiudiamo il cerchio tornando all’Arabia Saudita, rimbalzata nelle parole di Ron Paul.

Mohammed bin Salman

E’ infatti fresca fresca la lunga telefonata tra il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, e il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, i quali – viene spiegato in una nota congiunta – “hanno discusso della possibile cooperazione saudita con il blocco delle nazioni (BRICS) e hanno espresso sostegno alla cooperazione delle due nazioni come parte dell’OPEC+ per stabilizzare il mercato petrolifero globale”. Va rammentato che OPEC+ riunisce ben 23 paesi esportatori di petrolio: ad inizio di aprile hanno deciso di ridurre la produzione dell’oro nero con una mossa a sorpresa, “per sostenere i prezzi del petrolio – osservano gli esperti – sulla scia della crisi bancaria negli Stati Uniti”.

Commenta il sito di contro-informazione ‘The Cradle’: “I fallimenti delle banche sono in parte dovuti agli aumenti aggressivi dei tassi d’interesse nell’ultimo anno da parte della Federal Reserve statunitense. Hanno lo scopo di domare l’inflazione negli Usa e nell’economia occidentale, ma rischiano di causare una recessione economica che può ridurre la domanda di petrolio e provocare un calo dei prezzi, un risultato negativo per le grandi nazioni produttrici di petrolio nel mondo”.

In una nota il Cremlino sottolinea che “sono state studiate una serie di questioni sull’agenda bilaterale, con particolare attenzione all’ulteriore espansione delle relazioni reciprocamente vantaggiose nei settori del commercio, dell’economia, degli investimenti e dell’energia, ed è stata espressa soddisfazione per il livello di coordinamento all’interno dell’OPEC+ al fine di garantire la stabilità delle relazioni tra i due paesi e il mercato petrolifero globale”. Parole che suonano come autentici ceffoni per Joe Biden& alleati occidentali.

 

Ma c’è una ciliegina finale sulla torta. Che ha un contenuto non poco deflagrante. E rischia di piombare con effetti dirompenti sulla prossima campagna elettorale dei democratici negli Usa.

Cerchiamo di dipanare la matassa, non poco intricata.

Secondo le ricerche di una ottima giornalista investigativa, Akela Lacy, “l’Arabia Saudita possiede una partecipazione nell’azienda che ha acquistato la tecnologia della campagna elettorale del Partito Democratico”.

In una dettagliata inchiesta, infatti, così ricostruisce il puzzle: “Il governo dell’Arabia Saudita è un investitore nella società privata che possiede un monopolio virtuale sul software che alimenta i candidati democratici, inclusa la gestione dell’importantissima lista elettorale del Comitato nazionale democratico. SANABIL INVESTMENTS, la società che gestisce il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, ha recentemente pubblicato il suo primo elenco di investimenti in capitale di rischio, società di acquisizione e startup. L’elenco include due società di private equity coinvolte due anni nella vendita e acquisizione di EVERY ACTION e NGP VAN, le società che compongono l’apparato tecnologico della campagna del Partito Democratico”.

Prosegue nella sua dettagliata disamina Akela Lacy: “Sanabil gestisce il Public Investment Fund, il nome ufficiale del fondo sovrano del governo saudita. Il fondo è uno dei più grandi al mondo, con un patrimonio da 620 miliardi di dollari. Oltre agli investimenti in Apax Partners che ha acquisito NGP VAN eEvery Action nell’agosto 2021, Sanabil ha anche investito in INSIGHT PARTNERS, un’altra società di venture capital e private equity che ha investito in Every Action nel 2018 e ha venduto parti dell’azienda ad Apax nel 2021. Anche un’altra società chiamata VISTA EQUITY PARTNERS, che ha venduto beni ad Apax come parte dell’acquisizione del 2021, è elencata come partner saudita.

Altri investimenti sauditi resi noti di recente includono Blackstone, Apollo Global Management e Andreessen Horowitz”.

Una matassa che più intricata non si può.

E così la reporter conclude: “I regolamenti federali sono progettati per impedire ai fondi sovrani di interferire nella politica interna. Se un particolare investimento include un rischio per la sicurezza nazionale, le autorità di regolamentazione federali possono forzare l’annullamento della transazione attraverso il Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti sotto il Dipartimento del Tesoro. La maggior parte di tale rischio è generalmente mitigata perché i fondi sovrani tendono ad essere investiti in società tramite intermediari come Apax o Insight Partners”.

E allora. Visto che si parla di “sicurezza nazionale”, da un lato, e che dall’altro l’Arabia Saudita si sta legando sempre più alla Russia del nemico Putin, non è meglio che a dipanare quella matassa intervenga proprio il Mastino del Tesoro Usa, lady Yellen?

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